Thursday, May 25, 2006

Colpo di pettine, acquaforte, 1990

Torre di Babele, acquaforte, 2004

Thursday, May 18, 2006

TRANSITI (tra casualità, rigore e lamiere rugginose). (totò Vitrano)

E’ davvero molto difficile coniugare il passato con il presente alla luce delle tradizionali interpretazioni storiche, con gli strumenti d’indagine attuali che annullano, in certo qual modo, la cronologia degli eventi, l’ordine dei fatti e degli accadimenti nelle vicende umane. Molto problematico, se non impossibile, è il districarsi tra vecchio e nuovo. I tempi lunghi di analisi si sono accorciati. Nello spirito del tempo, accelerato dal movimento e dalla velocità della comunicazione che stiamo vivendo, peraltro con ansia, pare più conveniente accettare i tempi brevi, meglio se frammentari. Siamo costretti ad essere dentro il suo farsi. La cronologia, che sottolinea il corso della storia epoca dopo epoca, decennio dopo decennio, è risultata un grande inganno. Tra le cause e gli effetti che determinano le scelte umane non può essere ignorata la stretta relazione tra gli eventi e i mutamenti della realtà sociale. La storia non può essere più leggibile come un inventario di fatti accaduti. Non può più essere narrabile con i criteri che hanno informato l’ “interpretazione” dei collegamenti più casuali che sostanziali delle umane cose. Le scelte economiche hanno stravolto gli usi, i costumi, i processi sociali e politici; hanno modificato il modo di percepire la realtà e di esprimerla. Di questo ormai siamo consapevoli. Antichissime culture sono state spazzate via da un consumismo sempre più assillante che ha sconvolto anche le scelte individuali.
Alla luce delle dinamiche attuali, la storia è riconoscibile di più nei fatti minori, a prima vista trascurabili, che non in quelli eclatanti e riconosciuti come tali. La storia può senza sforzo essere letta dagli scarti esistenziali, dalle tensioni accidentali dei comportamenti artistici più che dai prodotti e dagli avvenimenti dell’arte.
Sono tempi molto duri per i profeti. Complesse speculazioni filosofiche e certezze che hanno sostenuto la cultura nel suo insieme vengono stravolte da circostanze imprevedibili. La storia della moda, del costume, della pubblicità, della musica, della televisione racconta in maniera appropriata il nostro tempo più che tutto il resto.
La sensazione che abbiamo è quella di sentirci, tutti, poco debitori verso il passato poiché la realtà ha annullato le distanze, ha accelerato il tempo sino a convincerci dell’ opportunità di vivere in un “eterno presente” rassicurante ed irresponsabilmente trascorso senza la costruzione del futuro.
La nuova generazione non ha più, non vuole avere o almeno tollera in forma molto ridotta il senso della storia. Attinge senza scrupoli al supermercato della cultura di massa e del consumo globale senza quel necessario rispetto, a mio avviso, a ciò che ci precede. Del resto basta guardare intorno per accorgersi come l'umanità stia dirigendosi verso una totalità consumistica senza precedenti. La domanda onnivora di ibrido e di contaminazione tenta di far dimenticare il passato, origini ed appartenenze quasi fosse un dovere collettivo. Si formano di contro categorie definitive. I ricchi devono stare con i ricchi e i poveri devono stare con i poveri. L’arte, specchio dell'umanità, ha contribuito non poco a stravolgere, negando il passato, i criteri della “ tradizione ” in nome e per conto della propria presunta libertà espressiva intesa con un atteggiamento esclusivistico, sul quale bisognerebbe almeno riflettere; come se la libertà espressiva fosse una prerogativa irrinunciabile del nostro tempo. Mi si obietterà, però, che visibile è la perdita progressiva della cittadinanza individuale, dell’appartenenza. Il "luogo" è ormai la ridondanza di altri luoghi, è l'accumulo di altre culture. E' vero pure che echi di umanità diverse si fondono, si scontrano senza una soluzione di continuità e di logica: la musica, i costumi dei vari popoli, le culture, gli usi, le tradizioni ne sono stati di fatto arricchiti.
Se l'“ieri” è stato caratterizzato dal rispetto dei padri e della cultura da loro trasmessa, ci auguriamo, soltanto come puro istinto di sopravvivenza, che l'”oggi” non sia soltanto l'uso di un inesatto senso della libertà, proprio quello che sconosce gli altri, tutti gli altri.
Queste considerazioni preoccupate, me ne scuso, sopravvengono alle mie riflessioni quando mi ritrovo a leggere l'arte, ad interpretare la forma, a contribuire al dibattito sul senso generale delle cose dell'arte e dell'esistenza. Sulla continuità e il significato del “fare arte” oggi, alla luce della imponente confusione del sistema dell'arte, alla luce della spropositata lotta per esistere tra il nuovo che incombe e il vecchio che da sicurezza.
I territori tradizionali dell'arte "colta", sostenuti da una specie di sacralità e rispetto, sono aggrediti da un' arte di massa costretta verso il "basso"per il consenso delle masse, fanno temere una progressiva perdita di autenticità, frutto dell' idealità e del mito. Indispensabile motore poetico, sentimentale e mitografico della storia e della complessa vicenda umana. Tutto ciò preoccupa. Quel che si rileva di negativo in giro è questa elasticità di intenzione legata solo al presente, alla sua iterata continuità senza scopi, questo procedere senza voler incidere nel profondo, dedicandosi agli altri con espressioni alte, spiritualmente generose e non individualistiche. L'alibi di un “pensiero comune”, perchè di alibi si tratta, non può bastare all'umanità, anzi occorrerebbe il contrario, la diversificazione proiettiva del sentire individuale che diventasse patrimonio universale e condiviso. Il sistema dell'arte attuale non tiene conto di ciò. Vuole solo stupire, irretire, scandalizzare. Forse, nel tentativo disturbato di comunicare le individuali fragili sperimentazioni c'è il futuro dell'arte, della sua sopravvivenza e del suo sviluppo. Ma non ne sono del tutto sicuro.
Oggi la critica si ritrova di fronte a questa angosciosa posizione: quella di dovere non rappresentare, ma proporre qualcosa. Leggere i percorsi individuali, le autobiografiche sperimentazioni, cercando spazi comunitari di praticabilità, senza storia e senza tempo.
Spesso, e lo confesso anche in questa sede, ho la sensazione che la pratica artistica si privatizzi sempre più a dispetto della visibilità che il sistema vuole imporre, quasi in termini consolatori, ghettizzanti. Ma non è del tutto così, per fortuna. Operano artisti titolari di contenuti emotivi e sensibili forti, sorprendentemente anomali. Appaiono disarmanti nell'individuale elementare proposizione operativa, cercano nell'accadimento del loro "frammento" e trovano con naturale intuito spazi di praticabilità molto spesso ricca di proiettiva originalità.

Mi pare che l'ultima considerazione possa essere riferita anche al lavoro di Totò Vitrano e alle sue ricerche recenti che vanno in insospettabili direzioni formali, che in qualche maniera leniscono le preoccupazioni prima accennate.
Di fatto conosco l'artista da più di un quarantennio. Sin da quell' ormai lontano 1962, anno nel quale Albano Rossi presentò la prima personale del ventiquattrenne scultore, assieme a Ciro Li Vigni, alla galleria "Il Chiodo" di via Ricasoli, irripetibile fucina di giovani promesse e di coraggiose proposte d'avanguardia. Erano anni, quelli, assai vitali e ricchi di futuro. Confesso che al curioso diciottenne pittore figurativo di provincia, quale ero, la mostra di Vitrano e di Ciro Li Vigni, ed ancora quelle di Francesco Carbone, di Michele Cutaia, di Filippo Panseca, di Salvatore Spanò, di Donatella Moncada, di Vincenzo Sciamè ed altri della generazione che mi precede esercitarono una positiva influenza sul mio futuro artistico. Ho imparato da loro, ma soprattutto da Francesco Carbone, maestro generoso, il coraggio di essere pittore in un ambiente ostile poiché inconsapevole.
In quegli anni irripetibili che hanno formato le generazioni successive di artisti a Palermo, Albano Rossi leggeva nell’esordiente che "la scultura di Totò Vitrano è la scultura del frammento: non del frammento di una certa cosa, del frammento per antonomasia. Chi tentasse di ricostruire il contesto dal quale questo frammento è stato avulso, non altro troverebbe che lo spazio". Ed ancora, sette anni dopo, scriverà che "forma e vuoto, fattori di per sé neutri, costituiscono i coefficienti primari del significato strutturale che è l'opera d'arte stessa". Identifica cioè quegli aspetti che costituiranno il percorso figurale dello scultore sino al periodo attivo. Dopo quasi venti anni di silenzio forzato da problemi dell'esistenza, l'artista palermitano del ferro riprende la sua ricerca interrotta e, come scrive Francesco Carbone, "dalla lamiera rigida sa ricavarne agili pannelli parietali e forme plastiche rese in lussureggiante flora ricamata. Tuttavia, non ritiene che la forma debba essere considerata come un segno portatore di un significato altro, perché il segno significa e la forma si significa; che il contenuto fondamentale della forma è un contenuto formale, e che quindi una volta che il segno assume valore formale eminente, il suo valore semantico viene modificato; divenuto forma, il segno aspira ad autosignificarsi."

Nel primo decennio degli anni Sessanta, anche a Palermo, grazie a Francesco Carbone, si è insinuato tra gli artisti il sospetto sulle potenzialità semantiche e formali del recupero o dell'uso di materiali diversi; del resto la Biennale veneziana del 1964 afferma la "Pop Art"e il concetto dell'artificiale. Vitrano, in questa clima, recupera materiali ferrosi e li assembla secondo simboliche memorie figurali suggerendone nuove presenze.

Ad una superficiale lettura che non tenga nella dovuta considerazione l'attenta analisi di Carbone, i precedenti pannelli di Vitrano rimanderebbero al rischio di una ripetitività segnica, quasi decorativa, senza futuro. Non è così. Per alcuni aspetti richiamano le esperienze della Città Frontale di Consagra, quelle sue sculture bidimensionali affidate soltanto alla centralità e alla convergenza della visione delimitata alla percezione della frontalità che sottolinea, appunto, l'"abitare" dello spazio senza la terza dimensione
Le ultime ricerche di Vitrano, che confluiscono in altri territori di riflessione, ambiscono e conquistano solo in parte la terza dimensione. Forme vegetali con accentuati accumuli dei ricordi di fiori, si mutano in tulipani o alberi ridotti soltanto a tronchi-struttura, travalicano l’immaginario e la memoria dello scultore e vengono, in questa mostra, organizzati come in un giardino di ferro, che ne sottolinea la regressione a materia, promuovendole ad immagini inedite. Un giardino disincantato che ci appare inquietante per quel senso di solidità e di estraniamento che la materia emana. Dal ferro traspaiono sinistri luccichii, minacciosi lampi d'inquietudine tra la ruggine opacizzante.
Ed ancor più le opere più recenti in ferro e lamiere, (in particolare Struttura n. 1, n. 2, n. 3) rappresentano un ulteriore sviluppo di quelle precedenti. Invece che su quelle forme geometriche da parete, che ben conosciamo, in apparenza descrittive e a volte ornamentali, quasi ispirate ai centrini ricamati o alle costruzioni di figurali memorie arcaiche, oggi l'artista lavora su rinnovate forme tridimensionali al cui interno si trovano altre forme. In tal modo egli capovolge, rispetto al lavoro compiuto nel passato, il rapporto fondamentale tra la forma e il materiale. Un immediato riscontro viene rafforzato dalle irregolarità procurate alle lastre dalle lacerazioni e dalle sfumature rugginose, dagli squarci che derivano dall'accanimento manuale delle sue opere dai ritmi più diversi, tra la casualità e il rigore che si appropriano di altri significati.
"Proprio alla "forma", sottolinea Aldo Gerbino, Vitrano concede il suo senso plastico; una piccola geografia del luogo della materia, dove l'agire di Efesto ritrova, non soltanto il ruolo del manufatto, ma anche la piega nuova, una sorta di autonoma, indefinibile, vitalità."

Alcune opere di Vitrano con le sue lune frastagliate e rugginose, quei legami insopprimibili dell'immaginario, con le liquescenti e oscure voragini e le ferite profonde che si aggiungono a rigonfiamenti e concavità, diventano, per qualche inesplicabile sorta del caso, monumenti al deperimento e all'abbandono. Sono ancora lucidi totem metallici elevati con spavalderia nello spazio del contemporaneo, si espandono con sicurezza. Oggetti bruniti dalla ruggine e dal fuoco deformante pongono all'osservatore più domande di quante risposte forniscano. Costituiscono, per dirla con Franco Spena, anche quei "giardini di leggerezza al di là della pesantezza del ferro popolati da forme che hanno perso il loro peso".
Forme lievi rispetto alla materia usata agiscono sullo spazio, lo attraversano pur se ben ancorate al terreno. Mi riferisco in particolare all’installazione simmetrica di quegli elementi posti con regolarità sul pavimento a costituire un sospeso territorio immaginifico. Altre opere (Ascensionale, Esplosione), come lance o frecce pronte a sollevarsi o quelle costituite da forme regolari (Percorsi; Impronte n. 1, n. 2, n. 3, n. 4, n. 5; In movimento) o altre con elementi simbolici (Farfalla, Fiore, Albero), o forme sagomate e arabescate (Ornamento, Vegetale n. 1 e n. 2) o forme libere (Alberi, Foresta) organizzate come un bosco costituiscono il corpus centrale della ricerca attuale di Vitrano, il quale non parte da un’idea prefissata, ma quando inizia una scultura non sa cosa ne verrà fuori. E' la materia che suggerisce. Ecco. Il problema della "materia" è la chiave di lettura per comprendere o meglio interpretare appieno l'artista. Vitrano rispetta la materia, vuole addomesticarla secondo la propria esigenza interiore, la necessità di sentimenti e di cultura, la necessità di esprimersi. Ha imparato bene che per ottenere ciò deve assecondarne la struttura.
In fondo è la materia che forgia l'artista e non viceversa, per meglio dire la sua concezione estetica riesce, di volta in volta, a prendere forma diversa piegandosi alla sua duttilità, alla sua manipolazione. Per questo vi si accanisce sopra con il cannello ossidrico, con il fuoco sino a lacerarla in ferite a volte profonde. A volte indugia sulle superfici con delicati ricamati rabeschi. Il suo intervento complessivo costituisce una "riflessione sulla materia". La sua ricerca artistica è il suo intervento conoscitivo entro i labirinti della materia: nel suo mistero inerte e nel piacere della sua conquista. In quel luogo dove s'incontrano e si fondono la realtà della visione quotidiana e le sotterranee strade del sogno. Mette così in scena il profondo, il linguaggio materiale del forgiatore di metalli, la potenzialità delle immagini oniriche, efemeridi di archetipi ed elementi mitici. Poiché l'intenzionalità espressiva non si nutre di categorie logiche ma riconosce e si riconosce nel potere dell'irrazionale e della sensibilità individuale. L’istinto mi suggerisce le contiguità. Mi sovviene facile il rimando ad alcuni alberi di Alik Cavaliere degli anni Cinquanta o ad alcuni assemblages di Ettore Colla ma mi riferisco principalmente alla creatività di Nino Franchina, alle sue fantasiose opere derivanti soprattutto dal rapporto fra uomo e materia.

La continuità di ricerca di Vitrano si rivela in un mondo di dicotomie, definite dalla correlazione delle forme stesse: esterno/interno, luce/ombra in un continuo accumulo di analogie, ripetizioni, variazioni. Il linguaggio elaborato enfatizza il rapporto di autosufficienza formale. L'aspirazione ideativa esaspera il rapporto di relazione. Da un lato ci pare attratto dalla materialità del Minimalismo, dall'altro dalla sintassi dell'Arte Concettuale sulla base della trasformazione dinamica di forme astratte - geometriche da cui si è sviluppato, nell'ultimo ventennio, il linguaggio delle forme dell'artista. Dall'altro ancora ci appare sedotto dalla forza della casualità, da un ordine casuale e sconosciuto, da istintivi impulsi immaginativi.

Ho avuto modo di seguire negli ultimi mesi la genesi di queste opere, che costituiscono il corpus inedito della mostra, realizzate a Partinico, presso un capannone artigianale. Un'officina meccanica prestata al confezionamento e alla scelta di profumati e lucidi pomodori ecologici pronti a partire per il mercato del nord contrastanti con la fiamma ossidrica della saldatrice elettrica, con le tronchesine, gli elettrodi e gli attrezzi per la forgia del ferro e la lavorazione delle lamiere. Un ambiente consono all'artista ma anomalo, nel quale con una condotta tra il fabbro e il maniscalco, preferisce costruire le sculture da sé piuttosto che farle realizzare da altri. Ciò è fondamentale poiché l'intervento diretto è guidato da una mano emotiva che batte a fuoco, taglia, tratteggia, scava, lacera le lastre con accanita passione. In questo senso le sue sperimentazioni si ricollegano ancora una volta al Postminimalismo che negli anni Ottanta era caratterizzato dal ritorno all'oggetto e alla "pratica del fare".

L'artista celebra, infine, le ricche qualità sensoriali del materiale adottato, il ferro, con la tipica colorazione fredda controbilanciata da quella naturale della ruggine. Ciò esalta la sua durezza metallica quasi di inanimata levigatezza, come di liquida luminosità, contrastata dalla calda opacità rossastra della ruggine, suscitando erotiche arcaiche risonanze. Ed in tal senso, non è una eresia immaginare le riflessioni religiose dei primi forgiatori del ferro, lo stupore della sua duttilità, il disagio fisico della sua freddezza, l'appagante senso del potere che offre la manipolazione della materia dura e la sua sconfitta sul piano formale. La conquista cioè del materiale restio attraverso la forza vitale che emanano gli echi dei quattro elementi fondamentali utilizzati: la terra, l'aria, l'acqua, il fuoco.

Dimenticavo. Un'opera in particolare rivela, in un'autocitazione ironica, ma non per questo trascurabile, una F e una T scritte con gli elettrodi su una superficie sagomata. Le due lettere sono le iniziali di un non troppo segreto incoraggiamento che l'artista fa a se stesso. Lo riporto:"Forza Totò!" Potrebbe costituire l'augurio finale per la sua ricerca a venire?

(Palermo, 10 aprile 2002)

SUL BESTIARIO MARINO (Patrizio Di Sciullo)

"Il guaio è che il collezionista d'acqueforti non può essere un Tizio, banalone, qualsiasi, già innamoracchiatosi dei vistosi coloracci di certuni quadroni: decorativissimi. Il chiasso del colore, l'isterismo ignoto non soltanto a Masaccio ma anche a Piero della Francesca, la barbarie (primitivesca) del colore, il fazzoletto da naso o da collo (coloratissimi) son cose che possono piacere anche agli zulù. Ma ad essi non piacerà mai una acquaforte di Rembrandt: perché mai sapranno leggerla; perché, per leggerla, occorre essere sottili". Polemizzava così, nel testo di autopresentazione: «Gli esemplari unici o rari» (1952) per difendere il suo lavoro d'incisore, il grande artista Luigi Bartolini. Per leggere veramente un'acquaforte occorre essere sottili. Eccola la sacrosanta verità. Su questa verità occorre insistere. Anche per incidere un'acquaforte bisogna essere sottili, ma soprattutto ingegnosi.

Sull'incisione

Non è mai abbastanza dire dell'incisione, quella vera naturalmente, per fugare l'equivoco ingenerato dalle stampe cosiddette "d'arte", frutto solo e soltanto delle esigenze mercantili di galleristi senza scrupoli, preoccupati di catturare un' anonima clientela di cultori dell'arredamento. Poco importa se non esiste la qualità delle stampe, se il procedimento di stampa è fotomeccanico. Sono queste alcune ragioni per cui gli autentici incisori hanno vita difficile. Tra l'altro non è semplice, per il profano, distinguere la differenza sostanziale tra la vera stampa d'arte e tutto il resto. Eppure esiste. Sottolinea la qualità del pensiero e del lavoro. Occorre tanto lavoro per una autentica stampa d'arte, ma molto spesso le qualità intrinseche (correlate da una complessa connessione sincronica fra il "fare" e il "pensare") dell'incisione che da circa sei secoli di tradizione della grafica a stampa rappresenta un patrimonio figurativo che si esprime in capolavori straordinari, non vengono conosciute e riconosciute.
Non è tutto. Ci sono due modi di guardare un'incisione: percepire l'immagine per quella che è, oggettiva, grigio e nero ovvero entrarci dentro, segno per segno, traccia dopo traccia. Ed allora tutto cambia. Il mondo si ingrandisce. L'orizzonte si allarga, si espande. Occupa tutto lo spazio visibile. Diventa non soltanto esperienza, ma godimento puro.

Sull'esperienza

In una stagione confusa come questa, fintamente libertaria, che esprime prevalentemente una cultura rivolta al consumo di massa e che, per tale ragione, avalla manufatti artistici ottenuti velocemente o almeno con poco dispendio di tempo, appare come una pausa, paradossalmente anomala, il paziente lavoro di Patrizio Di Sciullo. Artista, artigiano come ogni vero incisore, lavora da molti anni su un tessuto connettivo strutturale e definito in ogni dettaglio, tipico di chi vuole scavare nella realtà.
Studia al IV° Liceo Artistico e la sua formazione si completa all'Accademia di Belle Arti di Roma. Allievo dell'artista napoletano Mario Scarpati, autore di anarchici ma raffinati disegni urlanti, metafore passionali ed atroci di un'umanità pasoliniana, sofferente e goffa, Di Sciullo ne raccoglie l'eredità d'amore per il disegno e soprattutto per l'incisione. Un vero maestro, Mario Scarpati, poiché il suo ruolo è stato trasmettere non i propri valori espressivi, ma le istanze, i desideri, la tecnica operativa, gli strumenti del mestiere e perchè no, le proprie nevrosi; condurre gli allievi alla ricerca di terre nuove, di inesplorati territori figurativi; spingerli ad affrontare con i propri occhi la realtà osservata; affinare la percezione del linguaggio, per meglio mettere a fuoco la cifra espressiva di ciascuno di essi. Ed infatti Patrizio Di Sciullo non ha nulla in comune con le scoppiettanti e graffianti incisioni del suo Maestro ma pone l'attenzione ad un mondo realistico, alla realtà, in definitiva. E' una "rivolta morale", quasi un risposta "storicistica" all'anti-storicismo del nostro sconquassato presente che ritiene, per beceri interessi di bottega, che l'arte "antica", in quanto tale, sia vecchia e superata.
L'ineliminabile esperienza del passato, oggi, viene dimenticata dalla sperimentazione e dall'improvvisazione poiché tende al consenso immediato, al consumo e a sopravvivere soltanto a se stessa.

Un incontro

Devo al maestro Edo Janich la conoscenza dell'artista di Chieti. "E' opportuno che tu veda i fogli incisi da Patrizio. E' mio ospite, a Palermo. Possiamo incontrarci a San Basilio dove lavoro".
Mi incuriosisce molto l'entusiastica sollecitazione di Edo, solitamente schivo e misurato nelle sue scelte. Vado a trovarlo. Allocato nei fatiscenti locali del dismesso antico complesso di San Basilio, dato in affido ad un gruppo di volenterosi, nello studio provvisorio di Edo, il torchio è fermo. Sento l'odore della carta umida, gli odori dell'inchiostro, della cera calda e degli acidi. Sono in bella mostra sul tavolo di lavoro alcune prove di stampa di Patrizio. Attorno, alcuni giovani del volontariato stanno in rispettoso silenzio.
Penso, mentre ammiro le incisioni, ai bellissimi disegni e alle virtuose esperienze incisorie di Jean Pierre Velly del Bestiaire perdu che vidi esposti alla Galleria Don Chisciotte di Giuliano De Marsanich nel 1980, a Roma. Mi convinco che in qualche modo le atmosfere, la luminosità di un particolare foglio inciso: Arbre et coquillage (1974) albero e conchiglia di Jean Pierre Velly sono nel cuore e nella sensibilità di Patrizio. L'accostamento al mondo animale evocato da Velly (coleotteri, passerotti, pipistrelli, topi, rane, civette e scorpioni) non è casuale. Ne accenno a Patrizio. Un suo sorriso mi da la conferma.

Sulle opere

L'attenzione al mondo animale è antico quanto l’uomo. La storia dei Bestiari, sia negli antichi trattati di Plinio, di Aristotele, di Oppiano, di Eliano, di Beroso, che nei testi medievali di Hogues, di de Saint-Victor, di Richard de Fournival, di Philippe de Thaon, e ancora ai nostri giorni, ha sempre sottolineato il rapporto e le corrispondenze tra l'uomo e gli animali, tra la sua natura animale e quella spirituale. Animali reali e animali immaginari hanno popolato le fantasie e i sogni dell'umanità sin dalle sue prime manifestazioni magiche religiose. Secondo la simbologia astrologica, la luna ha una corrispondenza diretta con i crostacei, le ostriche oltrecchè con le rane, con gli usignoli e con i pesci. Insomma il mondo animale è inscindibimente legato alle paure, alle precarie certezze dell'uomo. Quest'ultimo finisce con il rassomigliare al proprio animale preferito.
Attento studioso dell'arte antica, Patrizio Di Sciullo percorre disinvoltamente la grande tradizione dell'incisione: Dürer, Goya, Rembrandt per citarne alcuni tra i grandi. Graffi e tratti improvvisi costituiscono il suo alfabeto linguistico ed incisorio, mentre, nei disegni, la sapiente trasparenza dei grigi determina la forma, crea atmosfere morbide e sfuggenti. L'elegante incisività del segno, quasi analitico, diventa fondamentale strumento conoscitivo della realtà. La levità e la sapienza grafica nei toni chiaroscurali sono evidenti, soprattutto, nelle rarefatte atmosfere dei disegni che accompagnano, precedono o seguono, le lastre incise. Il percorso stilistico è coerente. Dai primi fogli incisi di "mani", negli anni ottanta, alle recenti "conchiglie".
Una "micromitologia", questa di Di Sciullo, affidata anche ad un suo "bestiario marino" che affronta con sicura omogeneità di linguaggio e coerenza tematica. Diventa compilatore di un atlante marino di "naturalia" dove, però, le suggestioni poetiche si sovrappongono e si integrano alle qualità formali.
Quasi tangibili, delicatamente poggiate sul fondo di un acquario surreale, le sue sono forme guardate molto da vicino. Una incombente stella marina si difende con tanti corni di rinoceronte e le eleganti simmetriche protuberanze sono un pretesto disegnativo per raccontare la meraviglia dell'armonia offerta dalla natura. Un'altra stella marina ed un'altra ancora, attratte da un sole lontano, immerse nei chiarori dell'aurora, filtrate dalle trasparenze dell'acqua, diventano protagoniste assolute delle lastre incise.
In un foglio, alcune pietre lanciate nell'acqua formano cerchi concentrici, illuminati da una stella esplodente, luminosissima. Ancora un'armonica spiralica conchiglia, nel buio fosforescente della finta notte, nel silenzio circostante evocato, esprime intensamente non soltanto una maestosa staticità, ma una nobiltà antichissima, una severa presenza che è già forma assoluta.
In un altra splendida incisione una incorrotta corazza di granchio, una granseola, "così come la mia corazza", appunta come didascalia l'artista, in un luogo dove tutto può essere già stato, attende che avvenga qualcosa sullo sfondo composto da neri e da costruzioni geometriche impossibili.
Improbabili costruzioni e proiezioni geometriche di cerchi e di finte scritture calligrafiche, rese tessiture e trame articolate che intrigano i percorsi visivi, compaiono in molti fogli. Meglio: si intravedono e si integrano nei fondi. Costituiscono la volontà di inventare uno spazio architettonico ma, nel contempo, sensibilizzano lo spazio e rimandano alle architetture delle conchiglie e delle corazze.
Un maestoso riccio di mare scava con gli aculei la luce diffusa e instabile, corrode le ombre mentre “scampi” di una bellezza ostentata e proiezioni di coni vengono mescolati sapientemente alle incise abili ombre riportate delle chele. Improvviso senti una refola di brezza marina. L'ambiente s'abbuia, senza far notte. Ne deriva una sorta di enigmaticità. E' quasi un messaggio di guerra. Una "razza" marina si ferma per un attimo e diventa la protagonista di una straordinaria incisione. Il silenzio è attonito. La luce è struggente. Si disvelano nel nostro immaginario alcune immagini recondite.
Ancora una conchiglia che sta per trasformarsi in un mirabile sole, squarcia la tenebrosità del luogo inventato. Riesce a concentrare una forza centripeta e un movimento di luci ed ombre improvvise. La pace ostentata è cupa. Il fondo marino è come un luogo torpido, misterioso.
Due "scorfanini", in fondo al mare, quasi due complementari Yin e Yang segnano, inequivoca sede di mollezza e di languori, il loro territorio d'amore, il loro nido circolare, formato da una selva intricata di alghe, muschi, radici e segni contorti; segnano il loro spazio esclusivo con l'attesa di un amore sfinito e infinito. L'attesa è già azione. Sono rischiarati dalla luce filtrata dall'acqua del mare. Il silenzio è inspiegabilmente solenne. Il tempo non è misurabile. Nell'acqua si scioglie l'odore del sale.
I baluginii dell'increspatura del mare prodotti dalla luce radente del sole sull'orizzonte mi rendono il senso dell'acqua e del suo movimento come un brivido dell'acqua; ritornano alla memoria i fogli Fleurs (1971), Le ciel et la mer (1969) di Velly e le pulviscolari atmosfere evocate dal grande incisore friulano Janich. Il mare è come un miraggio.
Mirabilmente incisa una millenaria conchiglia, calcificata presenza, raccoglie memorie sedimentate da secoli. In alto, il cielo impassibile sovrasta e affiora dal flusso di tre fonti luminose, mentre in un'altra incisione un "abissale", la rana pescatrice, pesce tipico dei fondali marini, sogghigna innocua e la complice ombra riportata l'asseconda.
Mi è inevitabile, per quei naturali ed inspiegabili processi di associazione, andare con il pensiero alla Melanconia (1514) del Dürer, al furor melancholicus di Saturno; all'incanto dell'attesa della “melanconia dell'artista” che emana dall'interno/esterno della celebre incisione; ai silenzi ammalianti di un mondo capace di interpretare e predire, tra il racconto fantastico e il sogno, la natura profonda delle cose. La tenebra è squarciata dalla luce opportunamente resa dalle sue capacità affabulatorie.
Le acqueforti di Patrizio Di Sciullo, territori di silenzi ammalianti e sognati, manifestano una passione ed un interesse non comuni verso la natura e quello che essa rappresenta per la nostra povera storia di uomini.
Le sue incisioni si fanno libro scompaginato ma coerente nel racconto dei misteri del mare.
E' come se le incisioni fossero una "mise en scene". Ma l'attenzione dell’incisore, per il "bestiario marino", supera l'interesse scientifico, approda sapientemente alla realtà del desiderio. Traduce un'autentica passione per il mare. Mi vengono incontro alcuni versi di Charles Baudelaire (1857). "Uomo libero, tu amerai sempre il mare! / Il mare è il tuo specchio; contempli la tua anima / Nello svolgersi infinito della sua onda, /E il tuo spirito non è un abisso meno amaro."
Si avverte in tutta l'opera di Patrizio Di Sciullo, quell'atmosfera letteraria sospesa e inquietante dei luoghi immaginari de "La palude definitiva" dello scrittore visionario Giorgio Manganelli; si respira, in questo luogo metaforico, una storia antica e nel contempo "torbidamente viva", un luogo "in cui è difficile entrare e impossibile uscire".

Sulle conchiglie

Al Museo Mandralisca di Cefalù, tra le varie collezioni, esiste una straordinaria raccolta malacologica. Ho accompagnato Patrizio Di Sciullo a visitarla. Interessatissimo, alla vista di ogni conchiglia, esprimeva voglia e desiderio di disegnarla. La voglia di scavare dentro la struttura di ognuna, di apparecchiare lastre su lastre e di inciderle pazientemente scoprendone nell'una il colore, nell'altra la forma, nell'altra ancora l'armonia. Una lastra per ogni conchiglia.

Sul rigore del lavoro

Il mercato accoglie con difficoltà il lavoro di artisti rigorosi come quello di Di Sciullo. Secondo le ferree ma discutibili regole del consumo, il rigore appare antieconomico. La produzione dell'incisore è limitata, proporzionale al lavoro necessario. Lenta nel suo procedere. Un'acquaforte richiede tempi non compatibili con la richiesta dei mercanti che preferiscono, per ragioni ovvie, lavorare con artisti che realizzano le loro opere in breve tempo.
Di questo discutevo con Patrizio sulla spiaggia di Campofelice di Roccella, durante la brevissima vacanza che ci siamo concessi la mia compagna ed io, l’estate appena trascorsa.
E' stato quasi naturale che i discorsi ci portassero al mare per la comune e condivisa passione per questo universo liquido e misterioso. Anche se per quello che mi riguarda, in fondo, non capisco del tutto il mare. Mi affascina però l'orizzonte che lo determina ed ancor più ciò che sta al di là di esso. Negli anni '70, poiché ho sognato sin da bambino una nave ma anche perché covo una sorta di rancore, tra l’amore e l’odio, contro la liquidità, contro tutto ciò che altera l'equilibrio apparente del mio corpo galleggiante, ipotizzai una grande lunghissima nave. Lunga quasi quanto tutto il mio disagiato orizzonte visibile che metaforizza la precarietà del vivere, l'instabilità del galleggiamento in questo nostro tempo. Al contrario Patrizio ha con il mare un rapporto ideale, vi si trova perfettamente a suo agio anche come visitatore subacqueo, addirittura potrebbe essere considerato cittadino onorario degli abissi.
"È delizioso restare immersi / in questa specie di luce liquida / che fa di noi / degli esseri diversi e sospesi..." Credo che questi versi di Paul Claudel (1910) ben si accostino allo straordinario mondo inciso da Patrizio. E la luce mutante, protagonista essenziale di queste non comuni stampe d'arte, così come le forme adottate, moltiplicano il reale, lo amplificano e lo enfatizzano.

Bibliografia essenziale:

O.Wirth, Il simbolismo astrologico, 1937; Luigi Bartolini, Gli esemplari unici o rari, 1952; Jean - Paul Clébert, Bestiaire Fabuleux, 1971; Il fisiologo, a cura di Francesco Zambon, 1975; Jorge Luis Borges, Manuale di zoologia fantastica, 1979;
Jean Pierre Velly, Bestiaire perdu, 1980; Giorgio Manganelli, La palude definitiva, 1991.

AFFABULANTI TECHE DEL SILENZIO E DEL DOLORE (Carmela Corsitto)

La pittura con le macerie della sua storia e le sue ansie, come è noto, ha preso atto da tempo della crisi delle avanguardie con un atteggiamento non certo pacificante ma problematico e convulso.
Poiché la pittura ha rinunciato al ruolo storico, al corso regolare degli eventi e si è diretta al superamento delle prospettive utopiche delle avanguardie, negli intricati spazi della contaminazione, delle interferenze, degli sconfinamenti, delle appropriazioni indebite, del visibile e del proponibile, si è ritrovata all’interno di un processo dialettico di ricerca di territori diversi e rischiosi.
La contemporaneità sente, per tali ragioni, molto forte il disagio dei cambiamenti epocali dell’economia, della globalizzazione delle merci e delle idee, del costume, della comunicazione e su tali assunti cerca di stabilire un differente approccio all’arte, alla libera creatività e vive una stagione di ricerca rivolta alla realtà sinestetica, a tutto campo, delle espressioni e dei linguaggi.
Narcotizzati dagli eventi del vivere quotidiano che incessantemente, ossessivamente disperde, cancella, occulta le storie individuali, con quel malcelato atteggiamento comune a queste ultime generazioni di artisti ricercatori che si riconoscono nella schizofrenia del produrre, resta pur sempre l’aurora del sogno poco rassicurante in verità, dell’arte come poetica del vivere.
Francesco Carbone, recentemente scomparso, mostrandomi alcuni cataloghi di Carmela Corsitto, ne approvava entusiasta la ricerca e mi invitava ad approfondirne la conoscenza.
Un assorto distacco dalle precedenti esperienze di ascendenze, prima figurative poi informali, la portano alla consapevolezza di una libera creatività concettuale che istruisce gli itinerari dell’erranza e del nomadismo contemporaneo. E’ su tale coordinate che i suoi recenti lavori eliminano, azzerano le divisioni fra le diverse categorie dell’arte.
Carmela Corsitto, da qualche anno, insiste su un territorio di corruzione alla ricerca di una ideologia della forma e dell’immagine che evoca e suggerisce proprio attraverso raffinati installazioni ed oggetti estetici.
Attingendo agli scarti, all’accumulo dissenato dei rifiuti di una civiltà trash, mi pare che l’artista voglia esprimere non una vocazione al sogno dell’arte, ma il suo aggiramento, che voglia traghettare verso un’altra sponda, cercare (ancora una volta) una porta verso un’utopica felicità, un sentore di eternità.
Cassette-contenitori ora in forma di quadrati, ora in forma di triangoli, ora come rigorose gabbie quadrangolari esibiscono elementi naturali e reperti artificiali che perdendo il significato originale, ripropongono la memoria di altre forme che concettualmente ambiscono, rivendicano il loro destino naturale.
Carmela Corsitto si avvale prevalentemente del legno, di corde, di canapa, di fili di ferro, di vetri, di plexiglass con il quale cerca le possibili variabili delle trasparenze e quant’altro per mettere in scena, con puntuale ordine spaziale, la sbiadita memoria di un trascorso naturale, il suo disfacimento e la finzione di essa.
Tira aria di catastrofi di smemorati ricordi, di tragedie trascorse imprigionate in questi contenitori ibernanti. Scorie, cumuli e detriti di una storia passata, portatori di significati angoscianti, instaurano misteriosi interrelazioni tra la ricercata sintesi costruttiva e la tensione immaginativa. La percorrenza del desiderio di Carmela Corsitto, scarta e supera gli agguati del vuoto e con decisione s’incammina sicura verso l’altrove, verso l’attesa.
Ci invita a riconoscere altre possibilità interpretative di questi moderni sarcofaghi di reperti mummificati azzerando gli approcci percettivi canonici della forma in sé.
Un oggetto è particolarmente insistito: il cucchiaio ha un ruolo da protagonista e opportunamente contorto con del filo di ferro e rivestito da un tessuto tenuto insieme da vinavil mescolata a sabbia colorata racconta storie improbabili e fortemente suggestive di momenti a venire. A volte viene esibito come unità, a volte lo esibisce in coppia, altre volte in gruppo. Sospesa forma, virtualmente congelata, rivendica una propria teatrale visibilità, una dichiarata sospensione che suggerisce quasi una volontà autoreferenziale di non contaminazione. Forma sospesa nel vuoto rinvia, mi pare, a memorie di energie maschili. C’è come un’ansia di racconto in tutto ciò e sicuramente una promessa enigmatica di futuro in questo prender corpo e idea.
Insomma sono tante le associazioni d’idee e gli accostamenti analogici che provocano. Penso, ad esempio, alle teche con gli ex voto e i simulacri di cera in bella vista negli antichi salotti siciliani.
Trovo anche una singolare assonanza in molte installazioni dell’artista realizzate appositamente per essere poste sulle pareti, quasi bidimensionali bacheche schiacciate, con le ultime generazioni di televisori o dei computers che perdono la forma di scatola per appiattirsi sulla parete grazie ai cristalli liquidi, quali schermi di “proiezioni rappresentative” del visibile.
Alcuni reticoli filamentosi aggrovigliati, realizzati con canapa colorata, mi riportano alla mente i campi dannati e maledetti di Auschwitz e Birkenau che ho avuto modi di visitare in occasione di uno dei miei viaggi in Polonia. Queste forme “congelate”, questi grovigli inestricati dentro le teche, queste teche del silenzio e del mistero esprimono sapore di disgregazioni, un atavico malessere legato ai temi universali del dolore e alla teologia della morte, costringono la mia memoria a ricordare quelle montagne di capelli intrecciati che ho visto, o meglio subìto, quella iconologia della morte esposta al museo di Auschwitz lasciato nelle condizioni originali per non dimenticare dopo gli eccidi, le atrocità di un tempo che ognuno spera sia finito per sempre. Ancora di più questi simboli storti rivestiti posti nelle installazioni mi rimandano alle migliaia e migliaia di cucchiai ammonticchiati in quei campi dannati, alla violenza, al dolore.
Un richiamo apparentemente gratuito questo, ma legato a quegli imprevedibili percorsi della mente, a quelle associazioni di idee che portano ad affermare che ogni forma è il prodotto di una realtà universale che ci appartiene, ma che soprattutto ci rappresenta sia come linguaggio sia come memoria ed emotività.
Carmela Corsitto si appropria del gioco della composizione e dell’enigma con attenzione particolare verso gli oscuri percorsi della mente. Un viaggio creativo tra la geometria e la morfologia, alla ricerca di una nascosta visione che ambisce ad una traccia di felicità. E’ come se l’artista volesse raggiungere la sorgente dell’energia, della vitalità, attraverso la materializzazione delle categorie dello spazio e del tempo su una linea di confine tra arte e libera creatività.
Nudità, trasparenza ed essenzialità sono le trappole apparecchiate per sè e per gli altri con questi oggetti estetici come tramite, oggetti che non possiamo certo considerare arredi artistici, anche se proliferano disinvoltamente sulle pareti come quadri o sui pavimenti come sculture, ma che leggiamo, e forse impropriamente, come la proiezione di un disperato femminile candore, come l’imperscrutabile voglia di tenerezza nel miraggio dell’esistere fra un mondo ammalato di malinconia e un mondo da risanare attraverso la rappresentazione di se stessi.

(Palermo, 22 febbraio 2000)

COMMERCIANTI DI NEVE E DI CARCIOFI (Vincenzo Ognibene)

Ottima occasione questa mostra dell'artista cerdese Vincenzo Ognibene, soprattutto per le nuovissime generazioni educate e condizionate dalla cultura televisiva, per ritrovare un territorio di riflessione sul valore della cultura contadina, sul valore intramontabile della famiglia, delle stagioni e di tutto quello che regola, da millenni, il destino dell'uomo e le sue origini legate alla terra, al senso della religiosità insita nella natura stessa dell'umanità, nella sua precarietà. Ottima opportunità, inoltre, per riflettere e comparare gli argomenti che queste opere indagatrici, autoreferenziali suggeriscono al dissennato delirio d'onnipotenza che l'uomo d'oggi esibisce con disinvolta sicumera.
Un lungo racconto, un sogno smisurato ed improbabile che si dipana nelle opere di questa mostra che cerca le proprie origini, cerca la propria identità. Nato a Termini, sarà "Villaurea", contrada a tre chilometri da Cerda dove vive per otto anni, a dare al pittore la misura di tutte le cose che informeranno la sua vita. L'albero secolare accanto alla casa ritorna spesso nella sua essenziale pittura. "U focu e l'arvulu" rimanda, oltre al valore fortemente simbolico del Fuoco e dell'Albero della Vita anche alle struggenti serate invernali e alle gioiose serate d'estate dell'infanzia vissute in lietezza d'animo e spensieratezza che si fa puntuale testimonianza della tragedia di un popolo nella storia.
Quasi un ritorno a "U pizzu a Guardia" recita il titolo di un olio su tavola. Misura un tempo dell'infanzia in cui tutto era possibile. Presente e passato si fondono, interagiscono. L'opera dal titolo "Circolarità del tempo" vuole esprimere questo rapporto. Tutto il lavoro del pittore trae soprattutto forza dalla memoria e la trasfigura sostenuta da una vibrante poeticità. Sa che nei luoghi cercati del passato c'è la sua storia che coincide con la storia del mondo. Non deve perciò cercare una salvifica terra, non ci sarà mai una terra promessa. Non esiste il luogo, in fondo, ma uno spazio senza luoghi. L'artista l'ha già trovato, radicato nei ricordi più cari. E' la consapevolezza del passato.
Il quadro dedicato "a maistra Mariannina" è un delicato pensiero per l'insegnante della propria infanzia; la riconoscenza per i primi insegnamenti ricevuti che tanta influenza avranno nella formazione soprattutto morale del pittore. Non è un ossequio commemorativo finalizzato a se stesso. Rappresenta più che un ricordo.
E' la misura del ricordare nonchè l'attenzione ad un periodo molto preciso della sua vita.
Ogni cosa, appartenente al presente, si sbriciola dentro l'anima senza la consapevolezza del passato, senza la ricerca del probabile, trova tutto ciò nel luogo e spazio deputato della pittura, magico regno del possibile. Ne ha coscienza in "Casa mia, Madre mia", una citazione riflessiva sui "Malavoglia", che è un accorato, deferente omaggio alla madre, alle proprie origini contadine. Il "Dittico del padre e della madre" seguito da "Carusanza" non fanno che confermare il profondo amore per i genitori, per le radici delle quali andare fiero e orgoglioso. Ed ai contadini, ai lavoratori della terra ed in particolare al padre è dedicata l'intera mostra. Ricorda commosso che nella casa di Cerda, tornando dal lavoro si mettevano dei sacchi per non fare scivolare il mulo. 13 sacchi testimonieranno questa immagine ancora molto viva nell'artista. Altre opere raccontano i ricordi. "Accavaddu", è un quasi monocromo rosso omaggio al padre, mentre il dittico "Palummaru e tierra niura", il palummaru o terreno bianco, gessoso sul quale volteggia un corvo, si contrappone simmetricamente alla terra nera, fertile e carica di umori sulla quale vola una bianca colomba. Il bianco e il nero. Il gioco degli opposti radicalizza la composizione simmetrica che viene spesso adottata dal pittore. Insiste ancora sul dualismo dei contrasti nell'opera "Tra notte e giorno", un autoritratto ieratico, svincolato da qualsivoglia riferimento realistico, dal titolo emblematico e che ben sottolinea il dilemma tra la conoscenza e non, che esprime il dubbio sul significato profondo dell'esistenza.
Tra i ricordi cari dell'infanzia c'è anche quello di Tano Rizzo detto "u zollo", un personaggio di Cerda, lo sciocco del paese, non molto intelligente, ma benvoluto dai compaesani. L'artista, con l'opera "Notturno con tamburo", lo ricorda suonare il tamburino, lui ragazzino. In questa tavola il volto modiglianesco è esemplificato da una pittura essenziale in uno spazio improvvisamente dilatatosi. In basso un indefinito animale, cane e mulo o pecora indifferentemente, traduce lo stupore e la meraviglia di cui l'artista è capace, assecondato dalla presenza securizzate per l'intero territorio cerdese del Monte sacro San Calogero la cui "espressione", con atteggiamento quasi animistico, viene accomunata a quella d'"a zà Mariarita" di Villaurea.
Per associazione di idee penso, guardando le opere di questo pittore colto, a Zoran Music, alla poeticità diffusa, all'esemplificazione e rarefazione del colore che restituisce uno spazio mentale, sottilmente psichico nel quale si articola e si sviluppa l'intera produzione. L'allungamento delle forme umane evocate dal pittore rimanda alle forme scarnificate, quasi idoli primitivi, spesso immobili di Giacometti, ed esprimono la memoria della condizione umana. La figura umana diventa una forma improbabile, quasi abbozzata, cerca di rispecchiare il senso di precarietà del vivere.
"Per essere esatti bisogna dipingere delle cose colorate, - dice M.E.Chevreul - non come sono esse in realtà, ma come non lo sono". Ben lo intuisce Ognibene che usa il colore sia per vibrazioni atmosferiche, sia per risonanze simboliche ed allusive.
Avviene che certi ritmi ed accordi cromatici usati con essenzialità elementare, sono decisamente astrazione, assumono connotazioni misteriche, guardano verso altri aspetti della realtà intuita più che rappresentata. Penso, in tal senso, anche alla ricerca allegorica e di pura astrazione nella quale ricorrono la figuralità lirica ed essenziale della pittura di Osvaldo Licini o di Gastone Novelli.
Il pittore cerdese fa tesoro del rigore compositivo morandiano negli oggetti delle sue nature morte: mele, frutta, numeri e ceci. Esemplari prove sono la "Natura silente dell' 1 e del cecio" oppure la "Piccola erranza" dove un misuratore del grano, costituisce il fulcro centrale della natura morta. La sua pennellata fluente, spesso a tocchi veloci ed aerei, riporta alla levità rappresentativa del veneto Filippo De Pisis.
Le figure senza corporeità rimandano al mondo poetico di Marc Chagall e non è casuale che "l'angelo Pino", l'amico poeta Giuseppe Giovanni Battaglia voli allungato per tutta la lunghezza del quadro come in una assenza inquieta.
Ci troviamo, oltre a ciò, di fronte ad una pittura che insiste sui simboli e di essi si nutre. I numeri con l'1, l'inizio o il principio ed ancora il 2, o il 3, 4 sono i componenti della sua famiglia, sino al 7 (il riposo), ancora l'8, la circoncisione dei bambini ebrei e molte lettere dell'alfabeto rimandano con i simboli numerici alla Cabala, alla interpretazione della Bibbia, alle parole del Verbo.
Le costanti sintattiche della sua opera colta ed ispirata le ritroviamo nel suo mondo astratto e lirico-visionario che dichiaratamente sogna la rinascita, ne ipotizza la gioia. In un mondo senza ombre la luce pervade ed inventa uno spazio mentale di rara qualità interiore. Ogni elemento pittorico vive di luce propria, evoca un altrove, si richiama alla tragedia dell'esistenza, ma con leggerezza. Piuttosto la sospensione ricercata ed allusiva diventa tensione morale.
Ne risulta quasi una mostra autobiografica, ma nello stesso tempo pervasa di religiosità. "Dittico per Abramo", "L'arca di Noé nel diluvio", "Le due tavole", "L'inizio", "E sia", tanto per citare alcuni sono titoli emblematici ispirati allo studio della Bibbia e dell'Antico Testamento. Alla religiosità pervasiva di molta della sua produzione pittorica e disegnativa fanno eco due opere legate a questa problematica molto sentita dall'artista, sono "L'ebreo- marrano", nome ingiurioso rivolto agli ebrei convertiti al cristianesimo e l'elenco delle famiglie scritto sul Menorah, il candelabro a sette braccia, simbolo della luce nel tempo e nello spazio e delle sette feste ebraiche nell'opera "Cognomi", vuole testimoniare la presenza degli ebrei di Cerda e di Villaurea. I commercianti di neve e di carciofi, accanto ad uno scapolare nero, usato nelle lunghe giornate del vecchio pecoraio, amico del padre, simbolicamente raccontano la scomparsa della cultura contadina e degli ebrei marrani.
In proposito, a questo punto, ci pare opportuno annotare, per l'economia del discorso, che il destino del popolo ebreo è segnato da persecuzioni millenarie che da religiose, con il passare dei secoli, hanno preso a pretesto la sfera sociale. Il nazismo, inventando la questione razziale, decreta l'olocausto di sei milioni di ebrei nell'inferno dei campi di sterminio. Schiavizzati, deportati, trucidati, oggi, gli ebrei nel mondo si pensa siano circa 14 milioni, 5 milioni dei quali vivono, dal 1950, nello Stato d'Israèle. E a questi temi Vincenzo Ognibene vuole riferirsi quando affronta con la pittura lo studio del rapporto poco conosciuto tra la Sicilia e l'ebraismo. Vuole approfondire la conoscenza del destino di un popolo. Si chiede se anche lui è un ebreo marrano.
Per oltre quindici secoli gli ebrei abitano in Sicilia, in pace e prosperità e, con l'arrivo degli arabi, la loro presenza cresce notevolmente al punto che l'idioma degli ebrei siciliani (il giudeo-siciliano) sarà una lingua giudaica a base araba. S'insediano ebrei in tutti i principali centri urbani ed in diverse città rurali.
La politica di tolleranza religiosa, d'eccezionale modernità, praticata dagli emiri musulmani permette la convivenza pacifica e prospera delle quattro comunità religiose presenti nell'isola (islamici, cristiani di rito latino e cristiani di rito greco, ebrei). Anche durante il regno di Federico II, la presenza ebraica permane nell'isola. Ma, nella seconda metà del 1400, scoppiano alcuni casi di antisemitismo e la rapacità dei monarchi spagnoli si rivela pari all'aggressività antiebraica della chiesa cattolica.
Nel 1492, i sovrani spagnoli emanano l'editto d'espulsione, preceduto da una breve ma intensa campagna d'odio. Poiché l'editto vale per l'intero regno, anche gli ebrei siciliani ne sono colpiti, nonostante non siano d'accordo il Viceré, il Parlamento siciliano e la stessa popolazione cristiana che ha vissuto finora in amicizia con quella ebraica. Le comunità sono colpite pesantemente. L'alternativa o l'esilio, lasciando beni ed attività o abbracciare la religione cattolica. In decine di migliaia lasciano l'isola che viene duramente colpita nella sua vita economica e culturale. Le attività commerciali ed artigianali praticamente scompaiono, alcune isole minori rimangono pressoché abbandonate, la vivacità culturale del passato cancellata dal tetro clima imposto dall'inquisizione. Gli studiosi calcolano che lasciarono la Sicilia circa 40mila persone. Oggi non esiste una comunità ebraica in Sicilia, ma ritroviamo la memoria della loro presenza nella gastronomia, in talune espressioni dialettali, in alcune tradizioni dell'artigianato. Ognibene cerca altre tracce interiori più profonde, più intense, che conducano alla verità.
Il pittore nelle sue opere che non vivono la certezza, che si nutrono di ansie e di indefinitezza ma che sono dopotutto una confessione a cuore aperto, aggiunge in questa mostra con le tavole dedicate agli amici non più presenti, Francesco Carbone, Marco Incardona, Giuseppe Giovanni Battaglia, Giacomo Baragli, Vittorio Geraci, e Salvatore Carnevale di Sciara, ricordato come l'"Angilu era e 'un avia ali" di Ignazio Buttitta, il senso più nobile dell'amicizia e della memoria del passato che ritorna ed interagisce con il presente.

IL GIOCO DELLE APPARENZE (Laura Arancio)

Qualche tempo fa, invitato da un fotografo bravo, ma molto scortese, a fare una presentazione per il catalogo di una sua mostra, presentazione che, distratto da altre cose mai pubblicò, (a Palermo avviene anche questo), riflettevo sul fatto che viviamo immersi in un grande “blob”, in un continuo “zapping” delle immagini fisse (fotografie, pitture) che per sopravvivere a se stesse e per sostenere il ritmo delle immagini in movimento (televisione, cinema) sono costrette a rimodellarsi e restituire alla nostra percezione, accelerata dagli eventi per naturale adattamento ai fenomeni mediatici, uno stravolgimento di senso che naturalmente allontana una visione meditativa. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: la mancanza di capacità critica diffusa e la superficialità di tipo consumistico che accompagna molte generazioni.
Per scontati processi di associazione di idee e speculazioni riflessive, questi ragionamenti mi sono ritornati in mente guardando le immagini di Laura Arancio che appunto restituisce, alla nostra percezione, un rimodellamento ed uno stravolgimento di senso dell'immagine, catturata con l'obiettivo fotografico. La fotografia, del resto, tende sempre a sottrarre un dato alla realtà, per aggiungersi alla realtà. “La fotografia gioca un gran ruolo nella nostra vita d’ogni giorno”, ha scritto l’amico pittore Ernesto Treccani, “l’occhio dell’uomo d’oggi è assuefatto a trovarsi dinnanzi, in molteplici occasioni e sotto gli aspetti più vari, questo “medium” fra la vita che scorre ed il proprio sforzo d’individuazione. Per me pittore, in particolare, il mondo della fotografia riveste un immenso interesse. Per quella sua facoltà di “fermare” una realtà in perenne mutazione, di sottolineare l’attimo essenziale, l’atteggiamento complesso, in equilibrio estremamente instabile e passeggero”. E l’arte, in generale, è sempre pratica splendente di ambiguità e di instabilità.

Un incontro a Palermo

Devo a Matilde Trapassi il mio incontro con le fotografie di Laura Arancio. Le sono grato poiché in questa città, da decenni annichilita dalla “palermitanitudine” e che, generazione dopo generazione, stancamente ripropone sempre e soltanto se stessa, con un antico disagio esistenziale, con lo scimmiottamento di processi artistici più complessi e strutturati di altre regioni del mondo, è sempre più raro imbattersi in artisti riservati e coerenti che svolgono la loro ricerca, in tempi lunghi, senza stare al gioco “tra locale e globale”, atteggiamento tanto di moda tra gli artisti, i critici e il sistema dell'arte che li genera.
Parto da questa breve considerazione per affrontare la lettura del suo lavoro tenendo conto della sua coerenza nel tempo. Ripercorro l’iter di ricerca iniziato negli anni ottanta, per identificare agevolmente gli aspetti fondanti di essa; l’autoreferenzialità, soprattutto, nonché la dichiarata volontà di superamento del mezzo fotografico per tentare di allargarne i confini e i limiti; per coniugare, infine, la fotografia con la pittura. Tutto ciò avviene com’è ovvio, con il colore. Perché, nei fatti, lei è pittrice prestata alla fotografia e non viceversa. Ma vado per gradi.
Nel 1986, su carta cotone e carta velina emulsionata alla gomma bicromata, l’artista realizza collage di fotogrammi seppiati, grigi e neri con autoritratti e trasparenti ritratti femminili, risolti con il senso della memoria e l’archeologia del reperto e tra questi anche un bel ritratto dell’amica di sempre, Matilde Trapassi. L'anno successivo, nel 1987, con fotografie in cibacrome lavora con frammenti e particolari di scene teatrali, di donne e di occhi, tratti prevalentemente dal video. Viene da pensare alla ricerca di Mario Schifano che, alla fine degli anni sessanta, già estrapola singoli fotogrammi dai programmi televisivi e li proietta, decontestualizzati, sulla tela. Nelle successive esperienze interviene pittoricamente e muta ulteriormente il senso delle immagini riportando su tele emulsionate alcune immagini televisive isolate dal contesto delle sequenze logiche e riproposte con interventi estranianti di colore. E Laura Arancio percorre in qualche modo, tra fotografia, TV e intervento manuale gli stessi territori di ricerca prima accennati.
In tal senso, molti anni dopo, per più di due anni, ritocca a olio, meticolosamente a mano, con piccoli tamponcini e mascherine, le fotografie in bianco e nero. I suoi soggetti preferiti sono sempre i volti e gli autoritratti referenziali. S’interessa prevalentemente al corpo come mito.
Riflessiva e ponderata, prosegue la lentissima ricerca con la fotografia, dal 1996 sino al 2001, con collages d'immagini di garze, rametti, conchiglie, corazze e fratture segniche sapientemente ricostruite suggerendo suggestioni tendenti al sogno e al mito per approdare, ricostruendola, alla “memoria” della Nike di Samotracia.
L’attenzione di Laura Arancio dal 2003, anno della sua personale “Doppio sguardo” a Foiano (Arezzo), è rivolta alle cosiddette “fotografie artistiche” di famiglia, ricercate pazientemente ed acquistate nei mercatini della domenica. Con coerenza, anche spulciando tra le bancarelle dei rigattieri, rimane inalterato l'interesse per il mito e il sogno.

Le fotografie della ricerca attuale, esposte in questa personale, non abbisognano più della manualità pittorica ma si affidano ad un esercizio linguistico più maturo che, con la manipolazione dell'indotta frammentarietà della “fotografia da credenza o da bacheca”, tenta di dare un'idea di totalità. La “totalità” è percepita attraverso il frammento, attraverso l'allusione come avviene nel linguaggio televisivo.
Ed è quel che accade guardando il corpus fotografico che sottolinea anonime comparse di uomini, donne, bambini colti con il vestito buono della festa, testimoni nei gesti e nei vestiti di qualche rituale ricorrenza.
Laura Arancio costringe l'osservatore a guardare immagini che frammentano il corpo e gli oggetti comuni e che tra specchi e vetri deformanti lo restituiscono in porzioni o idee. Protagonisti divengono i volti, gli occhi, soprattutto gli sguardi che appaiono imprigionati nelle fotografie cadute casualmente dentro un acquario. L'occhio meccanico e obiettivo della macchina fotografica non possiede alcun automatismo che oggettivamente registri la realtà ma è aperto alle intenzioni, agli stimoli e alle memorie che gli consentono ormai variazioni e spostamenti. Ed è ciò che avviene in questa interessante ricerca.
La fotografia, come mezzo meccanico di registrazione della realtà visibile, l'assemblaggio visivo che inequivocabilmente ci rappresenta e che non tiene conto di uno specifico ordine progettuale, segue il dettaglio di un accumulo che genera in ogni immagine prodotta un diverso iter iconografico, tra la realtà e l'ambiguità del gioco delle apparenze.
Ci troviamo con queste fotografie di fronte ad una sorta di nomadismo creativo capace di ingenerare la suggestione di una realtà ambigua collocata al di fuori del tempo, sedimentata nella nostra memoria collettiva e nell'immaginario corrente, anche attraverso il filtro delle immagini distorte della televisione e di ogni registrazione meccanica della realtà visibile.
Frutto della deformazione ottenuta fotografando le vecchie immagini attraverso vetri cilindrici pieni d'acqua, il risultato è un racconto suggestivo ed evocativo di una vita immaginata: i bambini diventano goffi e le bambine sono imparentate forzatamente con l’infanta goyesca e i reinventati nanerottoli stanno immobili tra prime comunioni e feste comandate.
Uomini dai colletti inamidati, con i baffi e i sorrisi stereotipati, si accompagnano a rigidissime giovani donne, dagli sguardi verginei, che tengono enormi mazzi di fiori e che diligentemente fissano l'obiettivo fotografico per donarsi alla storia. Il risultato è una memoria che agisce tra la malinconia di un tempo trascorso e il ridicolo di una teatrale messa in scena che accompagna la fotografia in posa, ma anche un'immagine che vuole rinnovarsi, tra la sincerità del ricordo e l'emotività, e che contiene implicitamente gli accadimenti quotidiani di una memoria recente, frammentaria e sintetica, perfettamente inserita nel linguaggio odierno tra “blob e zapping”, pur se rifugge la nostalgia del passato.

Questa mostra si occupa specificatamente di famiglie di un tempo remoto, ectoplasmi di un sistema sociale confuso e contraddittorio, probabilmente destinato a trasformarsi in altro. Si accumulano, in una sequenza intercambiabile, le immagini ormai sbiadite che appartengono al mondo dell'affettività, delle stratificazioni emotive, dell'immutabilità della famiglia.
Gli interventi manipolatori che caratterizzano questa ricerca sottraggono alle fotografie il superfluo, ma aggiungono forse qualcosa in più, la sensazione del già visto che aiuta il lettore ad entrare nell’opera, nella rappresentazione di un mondo che ha denominatori comuni nella memoria e nell’immaginario collettivo. Diventano inquietanti teche, dall’atmosfera surreale e congelata, di una cultura contadina, profondamente cattolica, paragonabile alla cultura italiana che viene quasi spontaneo accostarle, nel dibattito di quest'ultimo periodo, a quella secolarizzazione all'incontrario che sta attentando ai valori fondanti della laicità che esprimono tolleranza e libertà di scelta dell'individuo.
Concludo ricordando la ricerca più recente di Laura Arancio che, considerati i suoi tempi, vedrà risultati concreti chissà quando: le diapositive rifotografate di una Piazza d’Italia di De Chirico sono la scena e le modelle, sempre autoreferenti, sono i burattini, i personaggi che recitano se stessi. Il gioco del travestimento e l’uso ambiguo, nello stesso tempo, dei vestiti utilizzati suggeriscono immediatamente un “poema a fumetti”. Ma ciò diventerà un’altra storia.

(Palermo, autunno 2005)

TRA ETICA ED ESTETICA (in Percorsi Etici a cura di Giuseppina Radice)

Una volta si credeva di trasformare il mondo, ora sta accadendo l'esatto contrario. Prima era l'uomo ad essere misura di tutte le cose ora è sempre più il mondo, interiorizzato dal nostro corpo-terminale, ad essere misura di un mondo sempre più dilatato. L'elettronica è una condizione che sta rivoluzionando la visione e le pratiche del mondo. Attraverso il video e il computer si sono venute a creare delle esperienze che hanno rilanciato il gioco delle percezioni in una sperimentazione che ha prodotto nuovi linguaggi, nuove estetiche, nuove concezioni dello spazio e del tempo. Queste esperienze, nate da un'inquietudine culturale, hanno accelerato i termini della questione etica. Si è creata quasi una coscienza organica al movimento della storia dell'arte. I nuovi modelli della comunicazione, dai mass-media ai new media, nella ricerca artistica attuale promuovono nuove tecnologie della comunicazione e nuove problematiche etiche.
L’era della tecnocomunicazione ha prodotto una crisi epocale e una trasformazione radicale dei modelli etici ed estetici. Ogni medium (dalla televisione ad internet) introduce un nuovo modo e una nuova tecnica di comunicare e di rappresentare la realtà che influenzano i comportamenti collettivi determinando addirittura le più cruciali questioni etiche del nostro tempo.
Che ruolo dunque può avere l’arte nel suo rapporto con i media e con le questioni etiche del terzo millennio? Le soluzioni possibili a questi problemi sociali e culturali rimangono la conoscenza e la comunicazione. Mai come oggi è forte l'esigenza di ipotizzare e di creare un mondo a misura d'uomo, forse perché con la creatività e gli strumenti di cui siamo dotati adesso, sappiamo che la possibilità esiste. Con le Realtà Virtuali la visione si fa "esperienza".

COSCIENZA CRITICA ED ETICA

E' convinzione profonda della nostra tradizione culturale considerare la bellezza un aspetto della bontà ed il bene come connaturato al bello. Espressioni come "non c'è vera bellezza senza libertà e non c'è vera bruttezza senza illibertà", oppure "il vizio rende brutti e la virtù rende belli" sottendono una connessione profonda tra etica ed estetica, tra valori morali ed estetici.
Libero, secondo Kant, è solo colui che agisce in base a leggi interne alla sua ragione, che la ragione impone a se stessa indipendentemente dall'educazione, dall'indole naturale. Sostiene altresì che libertà può essere un comportamento non determinato da alcun avvenimento antecedente. Infatti, il principio dell'etica scaturisce dall'essenza della ragione. Kant sostiene inoltre che il giudizio estetico occupa la posizione intermedia fra giudizio sensibile e giudizio morale.
La riflessione schilleriana scorge una correlazione fondamentale tra la dimensione etica e quella estetica, in quanto senza la mediazione dell’arte, non si potrà mai armonizzare il sensibile con il soprasensibile. Occorre coordinare l’interiorità con l’esteriorità, l’individualità armonicamente con l’universale. L’opera d’arte ha valore in se stessa, sarà morale nella misura in cui la bellezza racchiude una sua moralità.
Un intero secolo di ricerche nelle arti figurative, in continua trasformazione, ha portato alla nascita di uno spazio di determinante consapevolezza, oltrecchè la formazione dei nuovi linguaggi, ma soprattutto la strutturazione di una coscienza critica, in grado di identificare razionalmente gli aspetti prevedibili e non dell'eticità nell'arte.

ARTISTI FRA ETICA ED ESTETICA

L'arte contemporanea offre, sempre più, inediti spazi di creatività e di emozioni umane in una mutata dimensione del comunicare presupponendo oltre all'artista un pubblico che sappia godere, apprezzare, comprendere il messaggio spesso non completamente definibile.
Ecco perché ci pare che la produzione dell'"arte" debba confrontarsi con la sua eticità. Perché etico è tutto ciò che ha a che fare con i comportamenti sociali, con le domande che l'uomo si pone. L'artista allora può diventare un riferimento, indicare nuovi percorsi di emozioni, ragionamenti e domande. Un esempio è rappresentato dall’artista cileno Alfredo Jaar (1956 Santiago del Cile), che non ha mai temuto di affrontare, con la propria opera, questioni tra le più urgenti e drammatiche dell’attualità. L’artista è noto per una serie di progetti nati dall’esigenza di interrogare il contesto in cui si trova a lavorare fino a farne emergere aspetti contraddittori, normalmente trascurati o rimossi. Tra le installazioni pubbliche più note l’Inchiesta sulla Felicità del 1977 sul Cile di Pinochet, Rushes sui cercatori d’oro dell’Amazzonia, The Rwanda Project sul genocidio avvenuto in Ruanda. Jaar crede fermamente in una correlazione tra etica ed estetica e in un ruolo attivo e socialmente responsabile dell’artista e invita a recuperare i legami e i valori del sociale. Ne deduciamo che l'artista deve parlare di un mondo interiore, di un’etica e di una tenuta comportamentale che entra con delicatezza e volontà nell’arte. Non può far più distinzione tra etica ed estetica, fra comportamento e creazione.
L'arte non ritroverà mai più se stessa, ma potrà costruirsi una nuova identità se ritroverà la pienezza dell'azione, della poesia, della libertà. L'arte non è solo "immagine", "forma", "opera", ma processo liberatorio, atto politico quanto artistico. L'arte si identifica con la vita come principale atto di libertà, come forza dirompente, come creazione di mondi possibili. Sostiene Francesca Alfano Miglietti, "l'arte è il luogo, il luogo del diverso, del possibile ed esiste non per riprodurre il mondo ma per cambiare la vita. Operare per rivalutare l'identità della dignità umana, di restituire all'uomo la coscienza della propria forza creativa, la capacità, cioè, di cambiare il mondo. L'arte come uno spazio di riflessione, di presa di coscienza, di creatività. Intendendo per arte, uno spazio che decida di sottrarsi ad una quotidianeità che vive i modelli culturali a taglia unica, uno spazio che non vuole cedere alle regole del gioco sporco, agli incontri truccati, all'esserci a tutti i costi, rivendicando l'autoconsapevolezza di un percorso poetico, di un'esistenza etica, di un approdo che sceglie la vita".
Un "esistenza etica", che metta alla prova la capacità di misurarsi con le proprie origini e tradizioni, di mettersi in discussione nel confronto con culture diverse, per immettersi nel flusso creativo di nuovi modelli sperimentali e interpretativi della realtà.

UN METODO COMPORTAMENTALE

In un'epoca quale quella attuale, l'arte deve essere il risultato di un azzeramento, un bisogno sociale e civile e questa nuova arte deve trasformare l'esistenziale, la cultura "materiale" in codice poetico. Ciò indica una tensione di ricerca ai contenuti, un ritorno all'"esistenziale". Etica ed estetica sono un unicum riassumibile in un "metodo comportamentale". Non è importante "l'oggetto d'arte" quanto la sua forza dichiarativa, la sua capacità di influenzare il pensiero, lo spirito, il suo senso popolare e politico. L'artista deve aiutare a vedere la "bellezza" come forma del possibile, come etica capace di confrontarsi con la civiltà tecnologica.
«Raccontare è resistere» ci viene in aiuto Guimarães Rosa. Fare oggi l'artista è "resistere". La ricerca degli anni Sessanta e Settanta dell'arte impegnata, è sicuramente passata. Oggi come non mai l'arte rivendica una forte responsabilità morale. Una specie di impegno, diciamo, più «essenziale», nei confronti dell'arte stessa che comporta una rinnovata responsabilità etica.
La prima esigenza che l'artista oggi si pone è quella di vivere la vita nel quotidiano nei dettagli più umili, marginali ed apparentemente più insignificanti. L'artista, usa il telefonino, internet, compra prodotti di grande consumo, è coinvolto, sta dentro le cose, dentro la vita.
Ma esiste un'etica anche dell'opera d'arte? L'opera d'arte possiede in sé un'etica problematica, allusiva, centrifuga, che ha radici nel passato, ma si innesta nei significati più nascosti di un futuro imprevedibile. L'etica è il fondamento dell'estetica: l'arte non può essere priva di una forte carica etica.
Lo scrittore Cortázar sosteneva che è fondamentale capire il senso della nostra condizione di artisti. Capire il senso della nostra condizione di uomini ci obbliga ad affrontare la vita da una posizione etica. Nel caso dello scrittore, sosteneva ancora Cortázar, s'impone un compito: dare all'arte lo stesso vigore etico con il quale affrontiamo la vita.

(Palermo, 14 febbraio 2005)

L'IRA DELL'ERNIA

Scusi, ma Lei ha l’erna? - Prego! - Lei ha l’erna? La vedo muoversi con difficoltà. Gli sorrisi, che altro avrei potuto fare pur se il dolore mi costringeva a movimenti ineleganti, poco armonici.
Al pescivendolo del Capo, il mercato più popolare di Palermo, che mi aveva posto la domanda, risposi: ho una brutta ernia, caro amico. Pronunziai la parola ernia scandendola chiaramente per fargli capire che ernia non è erna. Gli precisai, pur se con fatica per il dolore improvviso. Si dice ernia e non erna. Non c’è proprio nulla da fare. E’ come un impulso incontrollato che scatta di fronte ad un errore di pronunzia, di grammatica o di sintassi quello che mi porta subito a chiarire, a puntualizzare. Il dolore era molto forte, scompostamente aumentava e dovevo, come spesso accadeva, poverino me, spingere con la mano nelle parti basse in prossimità dell’inguine, a sinistra, per tentare di ridurre il dolore. Si dice ernia e non erna riprecisai al pescivendolo che nel frattempo mi offrì una provvidenziale sedia. Lerna è un’altra cosa, è il nome di una palude dove viveva l’Idra, animale mostruoso, con nove teste delle quali una era immortale. Questo dolore, ahimé, è l’ira dell’ernia trascurata che si ribella.
Era, nella realtà delle cose giunto il tempo, mi piacesse o no, di porre rimedio a questo evadere il problema. Questo continuo rimandare a tempo indeterminato la soluzione chirurgica che mi era stata vivamente consigliata da due cari amici medici già da tre anni e sostenuta dalla mia compagna, testimone paziente e impotente delle mie sofferenze ormai quasi quotidiane.
Ernia, nel periodo della mia gioventù, negli anni cinquanta e sessanta, era una parola che veniva pronunziata con un certo riserbo spesso sottovoce poiché nell’immaginario collettivo, educato alla sessuofobìa cattolica, richiamava le parti basse maschili e non era fine, né opportuno parlare di certe cose soprattutto in presenza femminile. Ricordo che nelle campagne agrigentine gli uomini che soffrivano di questo disturbo convivevano con apparente tranquillità con questo problema, facendo anche lavori pesanti. Ed erano in molti ad avere grosse protuberanze che portavano a spasso con cristiana rassegnazione, pur se esteticamente impresentabili. Vi risparmio le allusioni dei ragazzacci.
Sono cambiati i tempi, i costumi, i linguaggi. Tutto si è trasformato, per fortuna, in altro anche se molte cose dovrebbero essere riviste, soprattutto per riaffermare il senso della dignità. Da questo punto di vista questa stagione attuale ben diversa, opposta direi a quella da me richiamata prima, meriterebbe una revisione sul senso dell’opportunità di comportamento, di civiltà e perché no di ricerca dell’eleganza. Dicevo. Sono trascorsi quaranta anni e rotti ed ernia nel periodo della mia gioventù, era una cosa ben diversa da quello che rappresenta oggi. Un intervento di routine, molto diverso dalle promesse che venivano pubblicizzate, con discrezione, nei piccoli tamburini pubblicitari dei quotidiani e delle riviste maschili del tempo.
Ai primi sintomi visibili l’operazione chirurgica porta immediati benefici, alla risoluzione definitiva del problema. Se invece viene trascurata presenta molte sofferenze in più. E’ qui il punto: gli anni di convivenza con il problema dell’ernia non sono soltanto un inutile martirio, ma un dichiarato sfoggio di idiozia. Ebbene la mia stupidità l’ho espressa per tre anni con disinvolta sicumera per non ammettere a me stesso d’avere timore dell’intervento. Una paura, mascherata da stoicismo, affidata al rimandare a tempo indeterminato il momento dell’intervento addebitando, miserabile alibi, agli impegni di lavoro, ai disegni iniziati aggiunti ai disegni non finiti; l’impossibilità chissà poi per quali improrogabili ragioni, di non poter andare sotto ai ferri.
E’ molto probabile, alla luce degli eventi successivi di cui riferirò che la paura sottopelle ed inconscia sia affidata al ricordo di un’operazione di appendicite che nel 1958, a quattordici anni subii e che mi costrinse a letto per quasi due settimane. Quel clima protettivo della famiglia, le attenzioni dei miei genitori preoccupati e dei miei fratelli più piccoli. La visita degli amici e dei parenti, dei vicini di casa. I regali consolatori, gli amati libri e i dolciumi. Insomma ricordo un avvenimento in piena regola ispirato dal timore condiviso da tutti per il significato di operazione chirurgica, di anestesia totale, dei possibili rischi e chi più timori del tempo ricordi più ne riferisca. Erano altri tempi che in fondo si rinvangano con una giustificata indulgenza, che non torneranno più se non nelle reminescenze degli ultimi inguaribili cultori della memoria. Prendo atto che ai ritmi lenti e cadenzati di quegli anni si contrappone la velocità nevrotica del nostro.
Ebbene. Non era più possibile né tollerabile una cosa del genere. Insomma. Trascurare un’ernia per tre anni.
E’ addirittura vergognoso che un uomo di sufficiente intelligenza come la mia, con una discreta rispettabilità sociale conquistata con fatica, si comporti da perfetto idiota. Convivere con un’ernia, rivelatasi per un sollevamento di un pacco di libri, in un trasloco, è davvero da stupidi.
Per farla breve l’episodio doloroso occorsomi al mercato del Capo superava ogni giustificabile comprensione agli occhi della mia compagna che già da tempo mi vedeva periodicamente soffrire. Non era più possibile continuare. Dovevo assolutamente prendere la decisione risolutiva. Fissare un appuntamento all’ospedale per l’intervento. E la decisione la mia compagna la prese telefonando in tempo reale alla nuora, chirurgo. Detto, fatto.
Due giorni dopo le analisi di rito e il giorno successivo bell'è fissato l’intervento. Che meraviglia, quale prontezza di riflessi, quale velocità decisionale soprattutto. Io non avrei potuto, né saputo fare meglio. La risoluzione presa al posto mio dalla mia compagna mi permette di far presente alle giovanissime coppie che la vita in due è un patrimonio irrinunciabile ed irripetibile sul quale bisogna riflettere. La forza segreta della coppia, e la sua durata, sta nel compensarsi a vicenda. E’ così che gli atteggiamenti idioti dell’uno vengono subito corretti dall’altra e viceversa. Così procedendo per ogni cosa. Ciò non può che confermare che la tenuta, nel tempo concessoci del vivere insieme, è nel saper prendere le decisioni giuste più opportune per il bene di entrambi.
M’immergo, a malincuore ma deciso, lentamente nel nulla, si diradano gli impegni importanti in una nebulosa malinconica, la posta elettronica saprà attendere. Il tempo trascorre con ritmi inusuali, lentissimo e veloce tra gli oggetti della mia casa, nello studio, rimbalza tra i libri. La decisione è stata presa, Cosa credevi,grullo, che potevi rimandare all’infinito?
Nel percorso tra Palermo e l’ospedale San Raffaele di Cefalù il paesaggio è completamente diverso, gli alberi, la costa, i ponti, le gallerie, le montagne sono un’altra cosa rispetto a ciò che hanno sempre rappresentato in un percorso a me familiare. Decido, durante il tragitto, di registrare su carta la banale avventura per dedicarla alla fine ai miei amici con gli stessi problemi.
Nella stanza assegnata di degenza pre-operatoria, l’infermiere mi dice di vestirmi da paziente. Metto il mio nome, il cognome, l’identità e il pudore ben ordinati sulla sedia e, nudo come un verme mi stendo sul letto. Guardo sopra, guardo sotto, guardo su e giù. Coscienziosamente attendo di essere depilato nelle parti basse con cura e scrupolo. Nel letto accanto ho un malato abbastanza grave che si lamenta. Ha lo stomaco immenso pieno d’acqua. Gli sorrido, cerco di confortarlo, come posso. Non è niente, gli dico, ma in realtà mi riferisco al mio problema banale rispetto al suo. L’infermiere, con un rasoietto blu, opera con cura e meticolosità fuori dal comune e nel frattempo mi avverte che è un’operazione importantissima e delicata perché bisogna evitare qualunque fonte d’infezione in sala operatoria. Non capisco se conversa con me o se parla a se stesso, per convincersi di lavorare sempre meglio. Guardo i suoi rapidi e sicuri movimenti delle mani e annuisco educatamente.
Indosso il camice verde di tessuto non tessuto, le busto-babbucce, il cappellino con i laccetti, appena in tempo per saltare sulla barella. Sono un paziente. Dal secondo al terzo piano tra scritte, ascensore cigolante, divieti, segnali di pericolo, percepiti dal basso verso l’alto, il percorso in orizzontale è cadenzato dalla velocità e il fare allegro dei due conduttori barellieri che si comunicano allegramente cosa faranno durante le ferie. Come va, mi chiede uno dei due. Preferirei vedere in alto paesaggi, colori, ritmi tonali e figure, ma devo accontentarmi del succedersi ritmico di moduli bianchi, cassette di luci al neon che scorrono veloci sulla mia testa. Il rollio della barella traballante viene interrotto da una brusca virata e da un rumore secco di porta a molla. Mi ritrovo in un piccolissimo deposito di barelle nella sala adiacente a quella operatoria. L’aria condizionata è regolata in modo che il sudore di qualunque natura esso sia, se ne stia buono buono. La giovane anestesista mi spiega che non farà l’anestesia parziale, poiché la mia situazione richiede, a furor di popolo, la spinale.
Una scarica elettrica sul piede sinistro, poi la perdita progressiva di sensibilità dell’uso delle gambe e della metà del corpo annunciano che il paziente è pronto per l’intervento. Una coperta di carta metallizzata mi è d’aiuto per il freddo ancora più intenso che trovo nella sala operatoria. La barella urta la seconda porta a molla. Educatamente saluto i chirurghi che si preparano. Vengo disteso come un tacchino da farcire sul tavolo operatorio, in alto la lampada circolare regolabile in altezza ed intensità, la stessa usata nei telefilm dei medici senza frontiere, è minacciosamente puntata verso la mia inerme persona. Vengo monitorato per il controllo della pressione venosa periodica, sul braccio sinistro il tubicino della flebo è già in collegamento diretto con la mia vena. Il dito indice sinistro vanta una pinza a molle per controllare la pressione arteriosa. Avverto nella parte che non mi appartiene, che stanno incollando delle strisce per delimitare il campo d’intervento. Sistemano un siparietto di carta verde su una barra posta davanti alla mia testa, tra la parte cosciente di me e la parte nascosta ed insensibile affidata ai due bravi chirurghi, perché io non possa vedere nulla. Meglio non sapere. Non mi si può però impedire di raffigurarmi simile a milioni di tacchini ben farciti, durante il tanksgiving, la festa della liberazione americana, con le patate dolci, le castagne e il caramello. Sono le due del pomeriggio. L’introibo con il primo taglio, quelli progressivi più in profondità, la manipolazione e la risistemazione del budello biricchino ed invasivo, la rete di plastica di contenimento, qualche punto d’ancoraggio, la cucitura finale, la pulizia, deo gratis, stop. Alla mia destra, in alto, sull’orologio annoiato, sono le tre del pomeriggio. E’ così risolto il problema di una qualsiasi ernia trascurata, come altre ce ne stanno al mondo. Ringrazio tutti per lo splendido lavoro compiuto e saluto educatamente. Sono già pronto a riappropriarmi del mio nome e del mio cognome, dei pudori e dignità, voi ne converrete, come è nel mio sacrosanto diritto di cittadino di questa Repubblica democratica fondata sul lavoro e nata dalla resistenza.

Agrigento, luglio 2005

CAVALLETTE AD AGRIGENTO

‘Quale orribile disastro’. Urlava. ‘Sono arrivate le cavallette. Che sciagura, che sciagura!’. Il Barone Cachìa, goffamente arrancando per le scale, andava gridando a proposito di presunte cavallette cercando qualcuno per sfogarsi. Ma lo faceva a sproposito poiché risultava eccessivo agli occhi dell’allibito commendatore al quale non pareva nemmeno che fosse lui. Non si era mai comportato così il nobiluomo. Appariva allarmato, preoccupato sarebbe dire poco. Il barone si comportava in maniera davvero strana. ‘Come sono sorprendenti ed imprevedibili gli uomini’, pensò il commendatore. La nobiltà qui non c’entra affatto, quel che più conta negli esseri umani è quello che dicono e quello che fanno.
Il commendatore Alfano, con sguardo finto intelligente, come sempre serafico ma sordo come una campana: ‘Barone, perché si agita tanto? Sento che è arrivato il Cavaliere Alletto, e allora? Venga all’ergo!’. Non capiva.
‘Ma non sa niente? Non si è accorto di nulla? Siamo sommersi dalle cavallette. Piovono cavallette, commendatore, cavallette! Dio mio! Mi hanno telefonato dalla campagna sotto Villaseta, da Monserrato. Sono centinaia, migliaia, milioni di cavallette. Non si è mai vista una cosa del genere! Povero mio raccolto, sono rovinato, sono rovinato!’. ‘Griddi’, commendatore, ‘griddi’, e poi di quale cavaliere Alletto va cianciando?’ ‘Lei sta equivocando!’.
‘Suonare un corno per un violino’, era intender poco o nulla del discorso esagitato del barone Cachìa da parte del commendatore, sordo come un campanaccio.
Ed ancora il commendatore Alfano: ‘Ma prima aveva detto del cavaliere Alletto che veniva ed ora mi parla del Cavaliere Grillo…’ ‘Barone, davvero non la capisco’. Lo guardava ma non si capacitava che la città stava per essere invasa dalle cavallette, prima a piccoli sciami, poi a nuvolaglie. Molti sapranno che per la particolare acustica, nel Duomo di Agrigento, le parole sussurrate all’ingresso della Chiesa che si trova a oltre settanta metri dall’abside, si sentono distintamente nell’abside ma in senso opposto ciò non avviene. Lo stesso fenomeno avveniva tra il Barone Cachìa che parlava e il commendatore Alletto che ascoltava e non sentiva nulla. I due, agli occhi di chi avrebbe potuto osservarli, parevano ‘far la tara’, giacché s’intendevano ‘come i ladri in fiera’ tanto distanti parevano per potersi comprendere. Il barone Cachìa, con le parole, con l’agitazione, con il corpo, con gli occhi, comunicava la disastrosa notizia dell’invasione delle cavallette che erano arrivate prima in piccoli sciami, poi sempre più numerose. C’era di che rintanarsi a casa, soltanto per la paura che un simile flagello incuteva.
Quell’impresentabile abbozzo di dialogo di cui prima si è detto, si svolgeva all’imbrunire in una scala in salita del quartiere antico della città. Un’altra calda sera d’estate ad Agrigento, come tante altre sere, si preparava. Ma avveniva che due persone non si capivano per via di due o tre parole travisate perché udite male. Non era una questione di lingua ma di parole cariche di paura, di sorpresa e dal sordo commendatore mal interpretate.
Mi sia permessa una breve parentesi. Solo in particolari momenti della vita si è indotti a riflettere meglio sul valore delle parole e quale importanza abbiano nella comunicazione umana. Un amico poeta in un delizioso libretto quasi dimenticato, dedicato alla via Athenea, si domandava: ‘Nei vocabolari è nascosta la verità?. Forse’. Eppure il barone e il commendatore, all’imbrunire, in una scalinata del quartiere antico della città, con le parole, in quell’occasione, non si capirono. E dire, per chi non lo sapesse o non lo rammentasse, che il primo dizionario della lingua italiana fu scritto da Niccolò Vella di Agrigento, nel 1500.
Per non sviare il lettore dal discorso è opportuno ricordare che anche nella Salita degli Angeli, all’imbrunire, il cielo improvvisamente si oscurò. Milioni di insetti piovvero dal cielo. Se non fosse stato per la violenza di questi insetti che cadevano a grandine da tutte le parti, poteva dirsi che Agrigento appariva come un palcoscenico di un maestoso spettacolo, orripilante. Un vero castigo di Dio. Ve la immaginate la faccia del commendatore Alletto che finalmente, ed era ora, aveva capito quello che gli aveva gridato il barone? Quasi in direzione opposta i due malcapitati, assieme ad altri, scapparono verso i ripari più vicini. Altri chiusero le finestre e si prepararono a difendersi dagli inattesi ospiti saltellanti per le stanze. Ma che avevano fatto di tanto grave gli agrigentini per meritare questo flagello?
Il fatto terribile di cui parlarono le cronache era davvero una cosa impensabile. Un conto è ascoltare, comodamente seduti, durante la predica in chiesa la lettura dell’Apocalisse: ‘dal fumo uscirono cavallette che si sparsero sulla terra ed avevano l’aspetto di cavalli pronti per la guerra’, altro è averle dappertutto, sulla faccia, sui capelli, sugli occhi. Un indistinto frinire di cavallette, un anomalo ronzio quasi metallico che solo a leggerne vengono i brividi.
Il 26 agosto 2006, avvenne che milioni di locuste rosa invasero Agrigento, oscurandone il cielo. Conquistarono, in brevissimo tempo, quasi tutta la provincia, divorando, distruggendo. Il danno fu incalcolabile, secondo le stime della prefettura.
Superato il difficile momento, nella via principale, si dissertava tranquillamente sull’argomento del giorno, ma che dico, dei giorni. Erano già trascorsi due giorni dall’invasione delle cavallette e il paesaggio era davvero desolante. Gli abituali passeggiatori e i perditempo di via Athenea, il salotto buono e cuore della città, travestiti da solerti volontari, affiancarono gli spazzini che con le consuete scope comunali ramazzavano tonnellate di cavallette e molte ancora moribonde. Cercavano di raccoglierle a mucchi, ai lati delle strade; donne schifate scopavano cavallette dai balconi e secchiellate di cavallette vennero raccolte anche dentro le case, per via delle finestre aperte.
In quei giorni il paesaggio era diverso in città. Bambini con le palette raccoglievano le carcassine irrigidite degli schifosi insetti, ne facevano mucchietti che versavano diligentemente ai bordi delle case, sui marciapiedi. Il caldo sole dell’estate rendeva l’aria insopportabile per la puzza delle cavallette morte. Nell’ordinanza del Sindaco e della giunta Comunale fu deliberato di non far circolare le macchine per almeno due giorni. In Città, nel silenzio delle strade, gli abitanti salivano e scendevano per le vie e i vicoli su percorsi, in parte già liberati dagli insetti, come se camminassero in piccoli sentieri.
Procedendo velocemente per non calpestarle ed era impossibile, le scarpe producevano crepitii dovuti agli sfrigolamenti di cavallette, di frammenti di cavallette. Per via dell’eccessiva quantità di insetti spiaccicati sull’asfalto non era facile pulire. Il percorso risultava molto scivoloso e ogni tanto si vedeva qualcuno cadere. Gli altri ridevano assieme al malcapitato che, giocoforza, per darsi un contegno, rideva. Che si poteva fare di altro? In città, dopo tre giorni, come è giusto accada, si era dissolta la paura. Qualcuno ostentava una esibita allegria, almeno per la novità che aveva stravolto le abitudini. Se la realtà non fosse stata così orribile, si sarebbe pensato ad una specie di dopo festa. Del resto, ad Agrigento, abitualmente succedeva quasi niente.
Alcuni curiosi, provenienti da altri luoghi, mi hanno riferito che la loro sensazione era che gli agrigentini vivessero quei momenti come un improvviso temporale estivo. Come quando il sole ricompare e spazza la bufera.
I giovani valutavano l’incubo di questi giorni come un gioco. D’altra parte cosa ci si può attendere dalla gioventù se non un sano atteggiamento ottimistico ed allegro rispetto a qualsivoglia novità, agli improvvisi accidenti della vita.
Marco, il professore, dissertava dottamente sul fatto che sono molte le specie di cavallette e che le dimensioni di esse sono molto variabili, ma, ne era sicuro, quelle che erano piombate dal cielo sulla città erano milioni di Calliptamus Italicus. Bisognava inoltre preoccuparsi che le cavallette fossero tutte morte; il pubblico dei camminanti abituali, quello di sempre, imparava, in quel colto estemporaneo discorso, che ‘la proliferazione della cavalletta assume quasi sempre un carattere periodico ed è indubbiamente influenzata dalle condizioni climatiche. La scarsa umidità ed un inverno siccitoso favoriscono la proliferazione delle uova’.
Il discorso diventava sempre più specialistico. Qualcuno pensava incuriosito a quale relazione ci fosse tra la vita delle cavallette e Mario, il professore molto conosciuto in città. Parlava come un libro aperto, qualcuno pensò. E’ un’arca di scienza, si disse con il pensiero un suo caro amico.
‘Le specie, continuò, sono poche e ben conosciute: il grande Dettico dalla fronte gialla, il Grillastro crociato ed il Grillastro italiano’. C’era di che restare alloccuti. Qualcuno sospettò che quell’uomo di cultura avesse studiato l’argomento per stupire gli altri. ‘Che strano’. Infervorato il professore declamava ad alta voce. ‘Ho visto, dal balcone di casa, la nuvola venire dalla direzione di Porto Empedocle e quindi era ragionevole supporre che venissero dall’Africa, dalla Libia o dalla Tunisia’. Teneva un’erudita lezione, come sempre aveva fatto, cambiando soltanto l’argomento. Con lo sguardo corrusco voleva apparire dispiaciuto per tutto quello spreco che vedeva intorno a sé, per tutto quel ben di dio, perché aveva letto da qualche parte che le cavallette costituiscono un piatto prelibato per talune popolazioni africane.
‘C’è a chi il Padreterno regala molto e a chi non dà niente’, commentò tutto compreso un barbiere di via Esseneto, abituato com’era a sproloquiare e a nient’altro, approvando con ampi cenni della testa il discorso che andava svolgendo il professore, suo abituale cliente.
‘Le cavallette vanno combattute nei luoghi dove sono state deposte le uova’. ‘Bisognerebbe controllare le condizioni climatiche’. ‘Del resto, non fu Empedocle che fece tagliare la Rupe Atenea per consentire al vento di tramontana di rinfrescare la città?’
‘Bisogna distruggere le uova’. ‘Con quello che costano!’ ‘Prima che siano in grado di volare, prima che si organizzino’. ‘Bisogna scovare le uova di cavallette’. ‘Andiamo a cercarle prima che diventino adulte’. Parlare e parole. ’Ma con che cosa?’ ’Non sarà pericoloso?’ Parole rimbalzavano sui muri delle case, nelle strade, nelle stradine. Rimbalzavano le parole come cavallette impazzite. ‘Ci vogliono gli anti-acridi, precisò timidamente un altro sopravvenuto alla discussione, per evitare nuove incursioni degli sciami’. ‘Dove si comprano gli anti-acridi?’ ‘In farmacia’. ‘Ma è così difficile capirlo?’ ‘Almeno questo, bisognerebbe saperlo’. ‘Forse è opportuno appuntarlo da qualche parte per la prossima volta’. ‘Me ne posso occupare io’. Cavallette o non cavallette, non è questo il problema, avviene sempre così nelle discussioni, ad Agrigento. Risulta, e a malincuore lo riferisco a quei generosi lettori che avranno avuto la pazienza di arrivare sino a questo punto, che parlare, spesso significa parlar d’inezie, parlare a vanvera, inutilmente. Ed amano, gli agrigentini, dissertare su qualsiasi discorso, su ogni argomento, su ogni avvenimento ed accadimento della vita, tristo o gioioso che sia. Così, tanto per parlare, per sentirsi, forse, meno soli.
Molti secoli fa, Omero cantava per scherzo ‘la guerra dei topi con le rane’; Virgilio parlava de ‘la zanzara e la focaccia’. Erasmo ci ricorda, nella prefazione dedica che precede ‘L’elogio alla pazzia’, altri scherzi.Insomma, per dirla proprio con Erasmo, con mucchi di parole si van formulando questioncelle di lana caprina. Anche ad Agrigento, la città più pirandelliana del mondo, come sappiamo, la più bella città dei mortali, accade.Molti, tra gli appassionati di questa straordinaria città, si preoccuperebbero molto se ciò non avvenisse: conferma della continuità e dell’immutabilità dell’esistenza. (Palermo febbraio 2006)

IL SEDICI DEL MESE DI.

Sedici. Ne sono più che certo. Era giorno sedici. Era il sedici del mese di. Punto e niente di più. Quale il mese? Un mistero. Anzi, il vuoto. Solo il vuoto nel cervello. Maledetta la memoria che comincia a dare segni di cedimento. Mi sono sempre gloriato di avere una memoria di ferro. Primavera o autunno? Trascorrono, ahimè, inesorabili gli anni. Non ricordo il mese e l'anno.
Dalla città, per allontanarmi dalle sue nevrosi, dai suoi limiti e dall'insufficienza della realtà, mi reco spesso sull’amata spiaggia, dove passo alcune ore scrutando l'intorno, in attesa che qualcosa accada. Qualcosa sempre avviene. Una barca lontana. Un peschereccio. Una nave di linea. Un aereo o una nuvola. Il mare nasconde e offre sempre delle cose a chi è disposto ad osservarlo.
Alle mie spalle, avvezzi alla salsedine, gli alberi dai tronchi brevi e tozzi. Poco lontano, le case abusive delle martoriate coste siciliane.
C'era il sole quel giorno. Del resto c'è sempre il sole quando si ricorda o si vuole ricordare una particolare giornata. Fateci caso. Succede anche nei sogni. Sulla spiaggia, sabbia e cumuli di ciottoli, trascorrevo sereno quella mattina del sedici del mese di. Non ricordo il mese e l'anno. Il giorno invece è sostenuto da un ricordo affettivo a me molto caro.
Alcuni gabbiani volteggiavano su un cumulo di immondizia prodotta dal vicino ristorante, aperto tutto l'anno, poco distante dall'eroica vegetazione. Come sempre fanciullescamente faccio, lo sguardo astratto, elencavo i sassi levigati, i frammenti di vetri iridescenti, le pietre colorate, gli agglomerati informi di plastica, i cartoni deformati, i mozziconi di sigarette, i profilattici usati, le bottiglie e le lattine vuote. Osservavo lo scomposto saltellio delle pulci di mare e gli incauti granchiolini sulla sabbia. Dimenticavo qualcosa. Un altro ricordo, come può ricordarsi un sogno, si presenta oggi alla memoria. Il ricordo di una barca lontana.

Ero tranquillamente affaccendato nella oziosa ma pacificante attività, quando il mare cominciò a mutare. Il cielo cambiò colore, il sole scomparve, in qualche modo l'intorno s'abbuiò. Planavano veloci grandi minacciose nubi cariche d'acqua mentre il mare s'increspava. Sulla linea dell'orizzonte un paio di grosse barche sparirono al mio sguardo. Il paesaggio cambiava e nell' impadronirsi di tutto lo spazio possibile, con arroganza m'assalì il vento. Fui costretto a subire il suo rumore inquietante che colpiva gli ostacoli che incontrava. Passarono solo pochi minuti quando la prima grande onda rovinò sulla sabbia e le pietre. Arretrai.
L'acqua di color verde bruno, rivelava nel suo scomposto movimento, il colore della sabbia smossa e delle alghe strappate dal fondo. Rametti, radici, alghe s'impadronivano della spiaggia ormai un ribollire di schiuma.
Avanzava la mareggiata. Mi piace il suono metallico dei ciottoli che strisciano sui ciottoli. Tutte le cose che approdano sulla spiaggia sono cariche di un racconto; dicono di ciò che sono state. Tutti gli oggetti portati dalle mareggiate sulle spiagge hanno i segni della loro avventura. Ma al di la delle riflessioni avanzava la tempesta del mare ed io arretravo.

Come posso con l'uso attento e controllato delle parole, raccontare credibilmente i toni e i rumori della caduta delle gocce di pioggia sulla sabbia? Non è facile impresa. Soprattutto quando la pioggia diventa, come accadde quel giorno, un furioso acquazzone. Forse potrei descrivere la pioggia che crepita attorno, portando con sé una vita nuova, che alza i profumi nascosti degli oggetti e solleva gli umori forti della sabbia e delle alghe putrefatte; quell'odore disfatto dei rifiuti che restituisce il mare e che colpiscono l'olfatto in modo particolare. L'acqua mi inzuppò i vestiti e i capelli. Il vento e la pioggia frustavano il mio volto. Era come se la natura del mare non volesse la mia presenza né alcun testimone. Stavo lì a guardare. Non vedevo più la barca lontana. La cercai con lo sguardo.

Tenterò di ricostruire il ricordo che potrebbe essere paragonabile e definibile come reale. La rividi, lontana, come una macchia scura. La barca era inspiegabilmente stabile. Le onde torbide, di fronte, in quel mare in tempesta, formavano gorghi. Ferma, contro le ragioni di semplice logica, come maledettamente non poteva essere nel ribollire della furia del mare intorno. Stavo con gli occhi puntati su quella forma ben salda. Come poteva succedere che la barca fosse incrollabile contro la furia delle onde.
La violenza della pioggia si accaniva contro gli occhi, contro il mio indifeso corpo ma ero lì, senza parole, sedotto da una sagoma immobile sul mare. Il tutto m'appariva, vicenda surreale e improbabile, come la visione di una barca fantasma. Era una presenza, senza governo umano, che raccontava una storia antichissima. In modo particolare pareva mi esprimesse la perversità degli oggetti inanimati. M'assalirono sensazioni di disfacimento e di luttuose premonizioni.

La battaglia mi si rivelava diversa dalle altre molte battaglie tra il legno e l'acqua; assumeva in quel frangente le caratteristiche dell'impari duello tra il mare in tempesta e la barca che il mare vorrebbe trascinare tra i flutti ed inghiottire. Sopraggiunse nel mio cervello un inopportuno odore di ceppo bruciato. E la barca stava là indifferente ad ogni furia, ad ogni attacco violento. Sospesa miracolosamente sull'acqua, quasi un osso di seppia violentato dalle onde, era aggredita da tutti i lati. La barca, lottava con la sua innaturale fermezza. Ero rapito da tanta sicurezza. L'avversità non la rendeva cedevole. Stavo vivendo una bizzarria, fuori da ogni logica; ero testimone di una stranezza, quasi di un perverso racconto allegorico. L'eroismo della barca stava nel suo trionfo sulla furia del mare, nell'essere indifferente alla violenza subita e ben salda. Al di là del suo destino, percorreva una strada verso la nobiltà; quell'orgoglio indifferente alla lotta, all'estenuante battaglia, conduceva sicuramente al successo. In pochi istanti imparai a conoscere e rispettare la barca e la sua salda fermezza che contrastava la rovina, l'accanimento delle forze naturali. Voleva ella, essere inanimato ma potente, sopravvivere alla distruzione e alla morte. Era come se vivessi, quel giorno, in un moltiplicarsi di echi e suggestioni, l'impossibile passione tra un uomo e una barca che diventa contro la sua stessa volontà e ragione, il personaggio di un racconto d'amore.
Dico ciò poiché in questa mia contemplata ammirazione, la barca diventava creatura, elemento vivo tra gli elementi, fino a dominare il mare che la insediava. Pareva sostenuta come da un demone che conosce il fatto suo. Oh giorno indimenticabile! C'era qualcosa di magico, di sapientemente sovrannaturale nella sua maestosa fermezza. Proprio nel suo tempo sospeso ne avvertivo il controllo della paura di essere risucchiata dal mare in una inesorabile sconfitta. La sua volontà di vita diventa, ancora oggi al ricordo, davvero metafora dell'esistenza, racconto inesauribile di vitalità ed insegnamento profondo.
Le onde minacciose s'intrecciavano, si accanivano decise contro una fragile imbarcazione incagliatasi, fortunosamente, in un provvidenziale minuscolo scoglio.

Dicembre, 2003