Thursday, May 18, 2006

L'IRA DELL'ERNIA

Scusi, ma Lei ha l’erna? - Prego! - Lei ha l’erna? La vedo muoversi con difficoltà. Gli sorrisi, che altro avrei potuto fare pur se il dolore mi costringeva a movimenti ineleganti, poco armonici.
Al pescivendolo del Capo, il mercato più popolare di Palermo, che mi aveva posto la domanda, risposi: ho una brutta ernia, caro amico. Pronunziai la parola ernia scandendola chiaramente per fargli capire che ernia non è erna. Gli precisai, pur se con fatica per il dolore improvviso. Si dice ernia e non erna. Non c’è proprio nulla da fare. E’ come un impulso incontrollato che scatta di fronte ad un errore di pronunzia, di grammatica o di sintassi quello che mi porta subito a chiarire, a puntualizzare. Il dolore era molto forte, scompostamente aumentava e dovevo, come spesso accadeva, poverino me, spingere con la mano nelle parti basse in prossimità dell’inguine, a sinistra, per tentare di ridurre il dolore. Si dice ernia e non erna riprecisai al pescivendolo che nel frattempo mi offrì una provvidenziale sedia. Lerna è un’altra cosa, è il nome di una palude dove viveva l’Idra, animale mostruoso, con nove teste delle quali una era immortale. Questo dolore, ahimé, è l’ira dell’ernia trascurata che si ribella.
Era, nella realtà delle cose giunto il tempo, mi piacesse o no, di porre rimedio a questo evadere il problema. Questo continuo rimandare a tempo indeterminato la soluzione chirurgica che mi era stata vivamente consigliata da due cari amici medici già da tre anni e sostenuta dalla mia compagna, testimone paziente e impotente delle mie sofferenze ormai quasi quotidiane.
Ernia, nel periodo della mia gioventù, negli anni cinquanta e sessanta, era una parola che veniva pronunziata con un certo riserbo spesso sottovoce poiché nell’immaginario collettivo, educato alla sessuofobìa cattolica, richiamava le parti basse maschili e non era fine, né opportuno parlare di certe cose soprattutto in presenza femminile. Ricordo che nelle campagne agrigentine gli uomini che soffrivano di questo disturbo convivevano con apparente tranquillità con questo problema, facendo anche lavori pesanti. Ed erano in molti ad avere grosse protuberanze che portavano a spasso con cristiana rassegnazione, pur se esteticamente impresentabili. Vi risparmio le allusioni dei ragazzacci.
Sono cambiati i tempi, i costumi, i linguaggi. Tutto si è trasformato, per fortuna, in altro anche se molte cose dovrebbero essere riviste, soprattutto per riaffermare il senso della dignità. Da questo punto di vista questa stagione attuale ben diversa, opposta direi a quella da me richiamata prima, meriterebbe una revisione sul senso dell’opportunità di comportamento, di civiltà e perché no di ricerca dell’eleganza. Dicevo. Sono trascorsi quaranta anni e rotti ed ernia nel periodo della mia gioventù, era una cosa ben diversa da quello che rappresenta oggi. Un intervento di routine, molto diverso dalle promesse che venivano pubblicizzate, con discrezione, nei piccoli tamburini pubblicitari dei quotidiani e delle riviste maschili del tempo.
Ai primi sintomi visibili l’operazione chirurgica porta immediati benefici, alla risoluzione definitiva del problema. Se invece viene trascurata presenta molte sofferenze in più. E’ qui il punto: gli anni di convivenza con il problema dell’ernia non sono soltanto un inutile martirio, ma un dichiarato sfoggio di idiozia. Ebbene la mia stupidità l’ho espressa per tre anni con disinvolta sicumera per non ammettere a me stesso d’avere timore dell’intervento. Una paura, mascherata da stoicismo, affidata al rimandare a tempo indeterminato il momento dell’intervento addebitando, miserabile alibi, agli impegni di lavoro, ai disegni iniziati aggiunti ai disegni non finiti; l’impossibilità chissà poi per quali improrogabili ragioni, di non poter andare sotto ai ferri.
E’ molto probabile, alla luce degli eventi successivi di cui riferirò che la paura sottopelle ed inconscia sia affidata al ricordo di un’operazione di appendicite che nel 1958, a quattordici anni subii e che mi costrinse a letto per quasi due settimane. Quel clima protettivo della famiglia, le attenzioni dei miei genitori preoccupati e dei miei fratelli più piccoli. La visita degli amici e dei parenti, dei vicini di casa. I regali consolatori, gli amati libri e i dolciumi. Insomma ricordo un avvenimento in piena regola ispirato dal timore condiviso da tutti per il significato di operazione chirurgica, di anestesia totale, dei possibili rischi e chi più timori del tempo ricordi più ne riferisca. Erano altri tempi che in fondo si rinvangano con una giustificata indulgenza, che non torneranno più se non nelle reminescenze degli ultimi inguaribili cultori della memoria. Prendo atto che ai ritmi lenti e cadenzati di quegli anni si contrappone la velocità nevrotica del nostro.
Ebbene. Non era più possibile né tollerabile una cosa del genere. Insomma. Trascurare un’ernia per tre anni.
E’ addirittura vergognoso che un uomo di sufficiente intelligenza come la mia, con una discreta rispettabilità sociale conquistata con fatica, si comporti da perfetto idiota. Convivere con un’ernia, rivelatasi per un sollevamento di un pacco di libri, in un trasloco, è davvero da stupidi.
Per farla breve l’episodio doloroso occorsomi al mercato del Capo superava ogni giustificabile comprensione agli occhi della mia compagna che già da tempo mi vedeva periodicamente soffrire. Non era più possibile continuare. Dovevo assolutamente prendere la decisione risolutiva. Fissare un appuntamento all’ospedale per l’intervento. E la decisione la mia compagna la prese telefonando in tempo reale alla nuora, chirurgo. Detto, fatto.
Due giorni dopo le analisi di rito e il giorno successivo bell'è fissato l’intervento. Che meraviglia, quale prontezza di riflessi, quale velocità decisionale soprattutto. Io non avrei potuto, né saputo fare meglio. La risoluzione presa al posto mio dalla mia compagna mi permette di far presente alle giovanissime coppie che la vita in due è un patrimonio irrinunciabile ed irripetibile sul quale bisogna riflettere. La forza segreta della coppia, e la sua durata, sta nel compensarsi a vicenda. E’ così che gli atteggiamenti idioti dell’uno vengono subito corretti dall’altra e viceversa. Così procedendo per ogni cosa. Ciò non può che confermare che la tenuta, nel tempo concessoci del vivere insieme, è nel saper prendere le decisioni giuste più opportune per il bene di entrambi.
M’immergo, a malincuore ma deciso, lentamente nel nulla, si diradano gli impegni importanti in una nebulosa malinconica, la posta elettronica saprà attendere. Il tempo trascorre con ritmi inusuali, lentissimo e veloce tra gli oggetti della mia casa, nello studio, rimbalza tra i libri. La decisione è stata presa, Cosa credevi,grullo, che potevi rimandare all’infinito?
Nel percorso tra Palermo e l’ospedale San Raffaele di Cefalù il paesaggio è completamente diverso, gli alberi, la costa, i ponti, le gallerie, le montagne sono un’altra cosa rispetto a ciò che hanno sempre rappresentato in un percorso a me familiare. Decido, durante il tragitto, di registrare su carta la banale avventura per dedicarla alla fine ai miei amici con gli stessi problemi.
Nella stanza assegnata di degenza pre-operatoria, l’infermiere mi dice di vestirmi da paziente. Metto il mio nome, il cognome, l’identità e il pudore ben ordinati sulla sedia e, nudo come un verme mi stendo sul letto. Guardo sopra, guardo sotto, guardo su e giù. Coscienziosamente attendo di essere depilato nelle parti basse con cura e scrupolo. Nel letto accanto ho un malato abbastanza grave che si lamenta. Ha lo stomaco immenso pieno d’acqua. Gli sorrido, cerco di confortarlo, come posso. Non è niente, gli dico, ma in realtà mi riferisco al mio problema banale rispetto al suo. L’infermiere, con un rasoietto blu, opera con cura e meticolosità fuori dal comune e nel frattempo mi avverte che è un’operazione importantissima e delicata perché bisogna evitare qualunque fonte d’infezione in sala operatoria. Non capisco se conversa con me o se parla a se stesso, per convincersi di lavorare sempre meglio. Guardo i suoi rapidi e sicuri movimenti delle mani e annuisco educatamente.
Indosso il camice verde di tessuto non tessuto, le busto-babbucce, il cappellino con i laccetti, appena in tempo per saltare sulla barella. Sono un paziente. Dal secondo al terzo piano tra scritte, ascensore cigolante, divieti, segnali di pericolo, percepiti dal basso verso l’alto, il percorso in orizzontale è cadenzato dalla velocità e il fare allegro dei due conduttori barellieri che si comunicano allegramente cosa faranno durante le ferie. Come va, mi chiede uno dei due. Preferirei vedere in alto paesaggi, colori, ritmi tonali e figure, ma devo accontentarmi del succedersi ritmico di moduli bianchi, cassette di luci al neon che scorrono veloci sulla mia testa. Il rollio della barella traballante viene interrotto da una brusca virata e da un rumore secco di porta a molla. Mi ritrovo in un piccolissimo deposito di barelle nella sala adiacente a quella operatoria. L’aria condizionata è regolata in modo che il sudore di qualunque natura esso sia, se ne stia buono buono. La giovane anestesista mi spiega che non farà l’anestesia parziale, poiché la mia situazione richiede, a furor di popolo, la spinale.
Una scarica elettrica sul piede sinistro, poi la perdita progressiva di sensibilità dell’uso delle gambe e della metà del corpo annunciano che il paziente è pronto per l’intervento. Una coperta di carta metallizzata mi è d’aiuto per il freddo ancora più intenso che trovo nella sala operatoria. La barella urta la seconda porta a molla. Educatamente saluto i chirurghi che si preparano. Vengo disteso come un tacchino da farcire sul tavolo operatorio, in alto la lampada circolare regolabile in altezza ed intensità, la stessa usata nei telefilm dei medici senza frontiere, è minacciosamente puntata verso la mia inerme persona. Vengo monitorato per il controllo della pressione venosa periodica, sul braccio sinistro il tubicino della flebo è già in collegamento diretto con la mia vena. Il dito indice sinistro vanta una pinza a molle per controllare la pressione arteriosa. Avverto nella parte che non mi appartiene, che stanno incollando delle strisce per delimitare il campo d’intervento. Sistemano un siparietto di carta verde su una barra posta davanti alla mia testa, tra la parte cosciente di me e la parte nascosta ed insensibile affidata ai due bravi chirurghi, perché io non possa vedere nulla. Meglio non sapere. Non mi si può però impedire di raffigurarmi simile a milioni di tacchini ben farciti, durante il tanksgiving, la festa della liberazione americana, con le patate dolci, le castagne e il caramello. Sono le due del pomeriggio. L’introibo con il primo taglio, quelli progressivi più in profondità, la manipolazione e la risistemazione del budello biricchino ed invasivo, la rete di plastica di contenimento, qualche punto d’ancoraggio, la cucitura finale, la pulizia, deo gratis, stop. Alla mia destra, in alto, sull’orologio annoiato, sono le tre del pomeriggio. E’ così risolto il problema di una qualsiasi ernia trascurata, come altre ce ne stanno al mondo. Ringrazio tutti per lo splendido lavoro compiuto e saluto educatamente. Sono già pronto a riappropriarmi del mio nome e del mio cognome, dei pudori e dignità, voi ne converrete, come è nel mio sacrosanto diritto di cittadino di questa Repubblica democratica fondata sul lavoro e nata dalla resistenza.

Agrigento, luglio 2005

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