Thursday, May 18, 2006

TRANSITI (tra casualità, rigore e lamiere rugginose). (totò Vitrano)

E’ davvero molto difficile coniugare il passato con il presente alla luce delle tradizionali interpretazioni storiche, con gli strumenti d’indagine attuali che annullano, in certo qual modo, la cronologia degli eventi, l’ordine dei fatti e degli accadimenti nelle vicende umane. Molto problematico, se non impossibile, è il districarsi tra vecchio e nuovo. I tempi lunghi di analisi si sono accorciati. Nello spirito del tempo, accelerato dal movimento e dalla velocità della comunicazione che stiamo vivendo, peraltro con ansia, pare più conveniente accettare i tempi brevi, meglio se frammentari. Siamo costretti ad essere dentro il suo farsi. La cronologia, che sottolinea il corso della storia epoca dopo epoca, decennio dopo decennio, è risultata un grande inganno. Tra le cause e gli effetti che determinano le scelte umane non può essere ignorata la stretta relazione tra gli eventi e i mutamenti della realtà sociale. La storia non può essere più leggibile come un inventario di fatti accaduti. Non può più essere narrabile con i criteri che hanno informato l’ “interpretazione” dei collegamenti più casuali che sostanziali delle umane cose. Le scelte economiche hanno stravolto gli usi, i costumi, i processi sociali e politici; hanno modificato il modo di percepire la realtà e di esprimerla. Di questo ormai siamo consapevoli. Antichissime culture sono state spazzate via da un consumismo sempre più assillante che ha sconvolto anche le scelte individuali.
Alla luce delle dinamiche attuali, la storia è riconoscibile di più nei fatti minori, a prima vista trascurabili, che non in quelli eclatanti e riconosciuti come tali. La storia può senza sforzo essere letta dagli scarti esistenziali, dalle tensioni accidentali dei comportamenti artistici più che dai prodotti e dagli avvenimenti dell’arte.
Sono tempi molto duri per i profeti. Complesse speculazioni filosofiche e certezze che hanno sostenuto la cultura nel suo insieme vengono stravolte da circostanze imprevedibili. La storia della moda, del costume, della pubblicità, della musica, della televisione racconta in maniera appropriata il nostro tempo più che tutto il resto.
La sensazione che abbiamo è quella di sentirci, tutti, poco debitori verso il passato poiché la realtà ha annullato le distanze, ha accelerato il tempo sino a convincerci dell’ opportunità di vivere in un “eterno presente” rassicurante ed irresponsabilmente trascorso senza la costruzione del futuro.
La nuova generazione non ha più, non vuole avere o almeno tollera in forma molto ridotta il senso della storia. Attinge senza scrupoli al supermercato della cultura di massa e del consumo globale senza quel necessario rispetto, a mio avviso, a ciò che ci precede. Del resto basta guardare intorno per accorgersi come l'umanità stia dirigendosi verso una totalità consumistica senza precedenti. La domanda onnivora di ibrido e di contaminazione tenta di far dimenticare il passato, origini ed appartenenze quasi fosse un dovere collettivo. Si formano di contro categorie definitive. I ricchi devono stare con i ricchi e i poveri devono stare con i poveri. L’arte, specchio dell'umanità, ha contribuito non poco a stravolgere, negando il passato, i criteri della “ tradizione ” in nome e per conto della propria presunta libertà espressiva intesa con un atteggiamento esclusivistico, sul quale bisognerebbe almeno riflettere; come se la libertà espressiva fosse una prerogativa irrinunciabile del nostro tempo. Mi si obietterà, però, che visibile è la perdita progressiva della cittadinanza individuale, dell’appartenenza. Il "luogo" è ormai la ridondanza di altri luoghi, è l'accumulo di altre culture. E' vero pure che echi di umanità diverse si fondono, si scontrano senza una soluzione di continuità e di logica: la musica, i costumi dei vari popoli, le culture, gli usi, le tradizioni ne sono stati di fatto arricchiti.
Se l'“ieri” è stato caratterizzato dal rispetto dei padri e della cultura da loro trasmessa, ci auguriamo, soltanto come puro istinto di sopravvivenza, che l'”oggi” non sia soltanto l'uso di un inesatto senso della libertà, proprio quello che sconosce gli altri, tutti gli altri.
Queste considerazioni preoccupate, me ne scuso, sopravvengono alle mie riflessioni quando mi ritrovo a leggere l'arte, ad interpretare la forma, a contribuire al dibattito sul senso generale delle cose dell'arte e dell'esistenza. Sulla continuità e il significato del “fare arte” oggi, alla luce della imponente confusione del sistema dell'arte, alla luce della spropositata lotta per esistere tra il nuovo che incombe e il vecchio che da sicurezza.
I territori tradizionali dell'arte "colta", sostenuti da una specie di sacralità e rispetto, sono aggrediti da un' arte di massa costretta verso il "basso"per il consenso delle masse, fanno temere una progressiva perdita di autenticità, frutto dell' idealità e del mito. Indispensabile motore poetico, sentimentale e mitografico della storia e della complessa vicenda umana. Tutto ciò preoccupa. Quel che si rileva di negativo in giro è questa elasticità di intenzione legata solo al presente, alla sua iterata continuità senza scopi, questo procedere senza voler incidere nel profondo, dedicandosi agli altri con espressioni alte, spiritualmente generose e non individualistiche. L'alibi di un “pensiero comune”, perchè di alibi si tratta, non può bastare all'umanità, anzi occorrerebbe il contrario, la diversificazione proiettiva del sentire individuale che diventasse patrimonio universale e condiviso. Il sistema dell'arte attuale non tiene conto di ciò. Vuole solo stupire, irretire, scandalizzare. Forse, nel tentativo disturbato di comunicare le individuali fragili sperimentazioni c'è il futuro dell'arte, della sua sopravvivenza e del suo sviluppo. Ma non ne sono del tutto sicuro.
Oggi la critica si ritrova di fronte a questa angosciosa posizione: quella di dovere non rappresentare, ma proporre qualcosa. Leggere i percorsi individuali, le autobiografiche sperimentazioni, cercando spazi comunitari di praticabilità, senza storia e senza tempo.
Spesso, e lo confesso anche in questa sede, ho la sensazione che la pratica artistica si privatizzi sempre più a dispetto della visibilità che il sistema vuole imporre, quasi in termini consolatori, ghettizzanti. Ma non è del tutto così, per fortuna. Operano artisti titolari di contenuti emotivi e sensibili forti, sorprendentemente anomali. Appaiono disarmanti nell'individuale elementare proposizione operativa, cercano nell'accadimento del loro "frammento" e trovano con naturale intuito spazi di praticabilità molto spesso ricca di proiettiva originalità.

Mi pare che l'ultima considerazione possa essere riferita anche al lavoro di Totò Vitrano e alle sue ricerche recenti che vanno in insospettabili direzioni formali, che in qualche maniera leniscono le preoccupazioni prima accennate.
Di fatto conosco l'artista da più di un quarantennio. Sin da quell' ormai lontano 1962, anno nel quale Albano Rossi presentò la prima personale del ventiquattrenne scultore, assieme a Ciro Li Vigni, alla galleria "Il Chiodo" di via Ricasoli, irripetibile fucina di giovani promesse e di coraggiose proposte d'avanguardia. Erano anni, quelli, assai vitali e ricchi di futuro. Confesso che al curioso diciottenne pittore figurativo di provincia, quale ero, la mostra di Vitrano e di Ciro Li Vigni, ed ancora quelle di Francesco Carbone, di Michele Cutaia, di Filippo Panseca, di Salvatore Spanò, di Donatella Moncada, di Vincenzo Sciamè ed altri della generazione che mi precede esercitarono una positiva influenza sul mio futuro artistico. Ho imparato da loro, ma soprattutto da Francesco Carbone, maestro generoso, il coraggio di essere pittore in un ambiente ostile poiché inconsapevole.
In quegli anni irripetibili che hanno formato le generazioni successive di artisti a Palermo, Albano Rossi leggeva nell’esordiente che "la scultura di Totò Vitrano è la scultura del frammento: non del frammento di una certa cosa, del frammento per antonomasia. Chi tentasse di ricostruire il contesto dal quale questo frammento è stato avulso, non altro troverebbe che lo spazio". Ed ancora, sette anni dopo, scriverà che "forma e vuoto, fattori di per sé neutri, costituiscono i coefficienti primari del significato strutturale che è l'opera d'arte stessa". Identifica cioè quegli aspetti che costituiranno il percorso figurale dello scultore sino al periodo attivo. Dopo quasi venti anni di silenzio forzato da problemi dell'esistenza, l'artista palermitano del ferro riprende la sua ricerca interrotta e, come scrive Francesco Carbone, "dalla lamiera rigida sa ricavarne agili pannelli parietali e forme plastiche rese in lussureggiante flora ricamata. Tuttavia, non ritiene che la forma debba essere considerata come un segno portatore di un significato altro, perché il segno significa e la forma si significa; che il contenuto fondamentale della forma è un contenuto formale, e che quindi una volta che il segno assume valore formale eminente, il suo valore semantico viene modificato; divenuto forma, il segno aspira ad autosignificarsi."

Nel primo decennio degli anni Sessanta, anche a Palermo, grazie a Francesco Carbone, si è insinuato tra gli artisti il sospetto sulle potenzialità semantiche e formali del recupero o dell'uso di materiali diversi; del resto la Biennale veneziana del 1964 afferma la "Pop Art"e il concetto dell'artificiale. Vitrano, in questa clima, recupera materiali ferrosi e li assembla secondo simboliche memorie figurali suggerendone nuove presenze.

Ad una superficiale lettura che non tenga nella dovuta considerazione l'attenta analisi di Carbone, i precedenti pannelli di Vitrano rimanderebbero al rischio di una ripetitività segnica, quasi decorativa, senza futuro. Non è così. Per alcuni aspetti richiamano le esperienze della Città Frontale di Consagra, quelle sue sculture bidimensionali affidate soltanto alla centralità e alla convergenza della visione delimitata alla percezione della frontalità che sottolinea, appunto, l'"abitare" dello spazio senza la terza dimensione
Le ultime ricerche di Vitrano, che confluiscono in altri territori di riflessione, ambiscono e conquistano solo in parte la terza dimensione. Forme vegetali con accentuati accumuli dei ricordi di fiori, si mutano in tulipani o alberi ridotti soltanto a tronchi-struttura, travalicano l’immaginario e la memoria dello scultore e vengono, in questa mostra, organizzati come in un giardino di ferro, che ne sottolinea la regressione a materia, promuovendole ad immagini inedite. Un giardino disincantato che ci appare inquietante per quel senso di solidità e di estraniamento che la materia emana. Dal ferro traspaiono sinistri luccichii, minacciosi lampi d'inquietudine tra la ruggine opacizzante.
Ed ancor più le opere più recenti in ferro e lamiere, (in particolare Struttura n. 1, n. 2, n. 3) rappresentano un ulteriore sviluppo di quelle precedenti. Invece che su quelle forme geometriche da parete, che ben conosciamo, in apparenza descrittive e a volte ornamentali, quasi ispirate ai centrini ricamati o alle costruzioni di figurali memorie arcaiche, oggi l'artista lavora su rinnovate forme tridimensionali al cui interno si trovano altre forme. In tal modo egli capovolge, rispetto al lavoro compiuto nel passato, il rapporto fondamentale tra la forma e il materiale. Un immediato riscontro viene rafforzato dalle irregolarità procurate alle lastre dalle lacerazioni e dalle sfumature rugginose, dagli squarci che derivano dall'accanimento manuale delle sue opere dai ritmi più diversi, tra la casualità e il rigore che si appropriano di altri significati.
"Proprio alla "forma", sottolinea Aldo Gerbino, Vitrano concede il suo senso plastico; una piccola geografia del luogo della materia, dove l'agire di Efesto ritrova, non soltanto il ruolo del manufatto, ma anche la piega nuova, una sorta di autonoma, indefinibile, vitalità."

Alcune opere di Vitrano con le sue lune frastagliate e rugginose, quei legami insopprimibili dell'immaginario, con le liquescenti e oscure voragini e le ferite profonde che si aggiungono a rigonfiamenti e concavità, diventano, per qualche inesplicabile sorta del caso, monumenti al deperimento e all'abbandono. Sono ancora lucidi totem metallici elevati con spavalderia nello spazio del contemporaneo, si espandono con sicurezza. Oggetti bruniti dalla ruggine e dal fuoco deformante pongono all'osservatore più domande di quante risposte forniscano. Costituiscono, per dirla con Franco Spena, anche quei "giardini di leggerezza al di là della pesantezza del ferro popolati da forme che hanno perso il loro peso".
Forme lievi rispetto alla materia usata agiscono sullo spazio, lo attraversano pur se ben ancorate al terreno. Mi riferisco in particolare all’installazione simmetrica di quegli elementi posti con regolarità sul pavimento a costituire un sospeso territorio immaginifico. Altre opere (Ascensionale, Esplosione), come lance o frecce pronte a sollevarsi o quelle costituite da forme regolari (Percorsi; Impronte n. 1, n. 2, n. 3, n. 4, n. 5; In movimento) o altre con elementi simbolici (Farfalla, Fiore, Albero), o forme sagomate e arabescate (Ornamento, Vegetale n. 1 e n. 2) o forme libere (Alberi, Foresta) organizzate come un bosco costituiscono il corpus centrale della ricerca attuale di Vitrano, il quale non parte da un’idea prefissata, ma quando inizia una scultura non sa cosa ne verrà fuori. E' la materia che suggerisce. Ecco. Il problema della "materia" è la chiave di lettura per comprendere o meglio interpretare appieno l'artista. Vitrano rispetta la materia, vuole addomesticarla secondo la propria esigenza interiore, la necessità di sentimenti e di cultura, la necessità di esprimersi. Ha imparato bene che per ottenere ciò deve assecondarne la struttura.
In fondo è la materia che forgia l'artista e non viceversa, per meglio dire la sua concezione estetica riesce, di volta in volta, a prendere forma diversa piegandosi alla sua duttilità, alla sua manipolazione. Per questo vi si accanisce sopra con il cannello ossidrico, con il fuoco sino a lacerarla in ferite a volte profonde. A volte indugia sulle superfici con delicati ricamati rabeschi. Il suo intervento complessivo costituisce una "riflessione sulla materia". La sua ricerca artistica è il suo intervento conoscitivo entro i labirinti della materia: nel suo mistero inerte e nel piacere della sua conquista. In quel luogo dove s'incontrano e si fondono la realtà della visione quotidiana e le sotterranee strade del sogno. Mette così in scena il profondo, il linguaggio materiale del forgiatore di metalli, la potenzialità delle immagini oniriche, efemeridi di archetipi ed elementi mitici. Poiché l'intenzionalità espressiva non si nutre di categorie logiche ma riconosce e si riconosce nel potere dell'irrazionale e della sensibilità individuale. L’istinto mi suggerisce le contiguità. Mi sovviene facile il rimando ad alcuni alberi di Alik Cavaliere degli anni Cinquanta o ad alcuni assemblages di Ettore Colla ma mi riferisco principalmente alla creatività di Nino Franchina, alle sue fantasiose opere derivanti soprattutto dal rapporto fra uomo e materia.

La continuità di ricerca di Vitrano si rivela in un mondo di dicotomie, definite dalla correlazione delle forme stesse: esterno/interno, luce/ombra in un continuo accumulo di analogie, ripetizioni, variazioni. Il linguaggio elaborato enfatizza il rapporto di autosufficienza formale. L'aspirazione ideativa esaspera il rapporto di relazione. Da un lato ci pare attratto dalla materialità del Minimalismo, dall'altro dalla sintassi dell'Arte Concettuale sulla base della trasformazione dinamica di forme astratte - geometriche da cui si è sviluppato, nell'ultimo ventennio, il linguaggio delle forme dell'artista. Dall'altro ancora ci appare sedotto dalla forza della casualità, da un ordine casuale e sconosciuto, da istintivi impulsi immaginativi.

Ho avuto modo di seguire negli ultimi mesi la genesi di queste opere, che costituiscono il corpus inedito della mostra, realizzate a Partinico, presso un capannone artigianale. Un'officina meccanica prestata al confezionamento e alla scelta di profumati e lucidi pomodori ecologici pronti a partire per il mercato del nord contrastanti con la fiamma ossidrica della saldatrice elettrica, con le tronchesine, gli elettrodi e gli attrezzi per la forgia del ferro e la lavorazione delle lamiere. Un ambiente consono all'artista ma anomalo, nel quale con una condotta tra il fabbro e il maniscalco, preferisce costruire le sculture da sé piuttosto che farle realizzare da altri. Ciò è fondamentale poiché l'intervento diretto è guidato da una mano emotiva che batte a fuoco, taglia, tratteggia, scava, lacera le lastre con accanita passione. In questo senso le sue sperimentazioni si ricollegano ancora una volta al Postminimalismo che negli anni Ottanta era caratterizzato dal ritorno all'oggetto e alla "pratica del fare".

L'artista celebra, infine, le ricche qualità sensoriali del materiale adottato, il ferro, con la tipica colorazione fredda controbilanciata da quella naturale della ruggine. Ciò esalta la sua durezza metallica quasi di inanimata levigatezza, come di liquida luminosità, contrastata dalla calda opacità rossastra della ruggine, suscitando erotiche arcaiche risonanze. Ed in tal senso, non è una eresia immaginare le riflessioni religiose dei primi forgiatori del ferro, lo stupore della sua duttilità, il disagio fisico della sua freddezza, l'appagante senso del potere che offre la manipolazione della materia dura e la sua sconfitta sul piano formale. La conquista cioè del materiale restio attraverso la forza vitale che emanano gli echi dei quattro elementi fondamentali utilizzati: la terra, l'aria, l'acqua, il fuoco.

Dimenticavo. Un'opera in particolare rivela, in un'autocitazione ironica, ma non per questo trascurabile, una F e una T scritte con gli elettrodi su una superficie sagomata. Le due lettere sono le iniziali di un non troppo segreto incoraggiamento che l'artista fa a se stesso. Lo riporto:"Forza Totò!" Potrebbe costituire l'augurio finale per la sua ricerca a venire?

(Palermo, 10 aprile 2002)

0 Comments:

Post a Comment

<< Home