Thursday, May 18, 2006

CAVALLETTE AD AGRIGENTO

‘Quale orribile disastro’. Urlava. ‘Sono arrivate le cavallette. Che sciagura, che sciagura!’. Il Barone Cachìa, goffamente arrancando per le scale, andava gridando a proposito di presunte cavallette cercando qualcuno per sfogarsi. Ma lo faceva a sproposito poiché risultava eccessivo agli occhi dell’allibito commendatore al quale non pareva nemmeno che fosse lui. Non si era mai comportato così il nobiluomo. Appariva allarmato, preoccupato sarebbe dire poco. Il barone si comportava in maniera davvero strana. ‘Come sono sorprendenti ed imprevedibili gli uomini’, pensò il commendatore. La nobiltà qui non c’entra affatto, quel che più conta negli esseri umani è quello che dicono e quello che fanno.
Il commendatore Alfano, con sguardo finto intelligente, come sempre serafico ma sordo come una campana: ‘Barone, perché si agita tanto? Sento che è arrivato il Cavaliere Alletto, e allora? Venga all’ergo!’. Non capiva.
‘Ma non sa niente? Non si è accorto di nulla? Siamo sommersi dalle cavallette. Piovono cavallette, commendatore, cavallette! Dio mio! Mi hanno telefonato dalla campagna sotto Villaseta, da Monserrato. Sono centinaia, migliaia, milioni di cavallette. Non si è mai vista una cosa del genere! Povero mio raccolto, sono rovinato, sono rovinato!’. ‘Griddi’, commendatore, ‘griddi’, e poi di quale cavaliere Alletto va cianciando?’ ‘Lei sta equivocando!’.
‘Suonare un corno per un violino’, era intender poco o nulla del discorso esagitato del barone Cachìa da parte del commendatore, sordo come un campanaccio.
Ed ancora il commendatore Alfano: ‘Ma prima aveva detto del cavaliere Alletto che veniva ed ora mi parla del Cavaliere Grillo…’ ‘Barone, davvero non la capisco’. Lo guardava ma non si capacitava che la città stava per essere invasa dalle cavallette, prima a piccoli sciami, poi a nuvolaglie. Molti sapranno che per la particolare acustica, nel Duomo di Agrigento, le parole sussurrate all’ingresso della Chiesa che si trova a oltre settanta metri dall’abside, si sentono distintamente nell’abside ma in senso opposto ciò non avviene. Lo stesso fenomeno avveniva tra il Barone Cachìa che parlava e il commendatore Alletto che ascoltava e non sentiva nulla. I due, agli occhi di chi avrebbe potuto osservarli, parevano ‘far la tara’, giacché s’intendevano ‘come i ladri in fiera’ tanto distanti parevano per potersi comprendere. Il barone Cachìa, con le parole, con l’agitazione, con il corpo, con gli occhi, comunicava la disastrosa notizia dell’invasione delle cavallette che erano arrivate prima in piccoli sciami, poi sempre più numerose. C’era di che rintanarsi a casa, soltanto per la paura che un simile flagello incuteva.
Quell’impresentabile abbozzo di dialogo di cui prima si è detto, si svolgeva all’imbrunire in una scala in salita del quartiere antico della città. Un’altra calda sera d’estate ad Agrigento, come tante altre sere, si preparava. Ma avveniva che due persone non si capivano per via di due o tre parole travisate perché udite male. Non era una questione di lingua ma di parole cariche di paura, di sorpresa e dal sordo commendatore mal interpretate.
Mi sia permessa una breve parentesi. Solo in particolari momenti della vita si è indotti a riflettere meglio sul valore delle parole e quale importanza abbiano nella comunicazione umana. Un amico poeta in un delizioso libretto quasi dimenticato, dedicato alla via Athenea, si domandava: ‘Nei vocabolari è nascosta la verità?. Forse’. Eppure il barone e il commendatore, all’imbrunire, in una scalinata del quartiere antico della città, con le parole, in quell’occasione, non si capirono. E dire, per chi non lo sapesse o non lo rammentasse, che il primo dizionario della lingua italiana fu scritto da Niccolò Vella di Agrigento, nel 1500.
Per non sviare il lettore dal discorso è opportuno ricordare che anche nella Salita degli Angeli, all’imbrunire, il cielo improvvisamente si oscurò. Milioni di insetti piovvero dal cielo. Se non fosse stato per la violenza di questi insetti che cadevano a grandine da tutte le parti, poteva dirsi che Agrigento appariva come un palcoscenico di un maestoso spettacolo, orripilante. Un vero castigo di Dio. Ve la immaginate la faccia del commendatore Alletto che finalmente, ed era ora, aveva capito quello che gli aveva gridato il barone? Quasi in direzione opposta i due malcapitati, assieme ad altri, scapparono verso i ripari più vicini. Altri chiusero le finestre e si prepararono a difendersi dagli inattesi ospiti saltellanti per le stanze. Ma che avevano fatto di tanto grave gli agrigentini per meritare questo flagello?
Il fatto terribile di cui parlarono le cronache era davvero una cosa impensabile. Un conto è ascoltare, comodamente seduti, durante la predica in chiesa la lettura dell’Apocalisse: ‘dal fumo uscirono cavallette che si sparsero sulla terra ed avevano l’aspetto di cavalli pronti per la guerra’, altro è averle dappertutto, sulla faccia, sui capelli, sugli occhi. Un indistinto frinire di cavallette, un anomalo ronzio quasi metallico che solo a leggerne vengono i brividi.
Il 26 agosto 2006, avvenne che milioni di locuste rosa invasero Agrigento, oscurandone il cielo. Conquistarono, in brevissimo tempo, quasi tutta la provincia, divorando, distruggendo. Il danno fu incalcolabile, secondo le stime della prefettura.
Superato il difficile momento, nella via principale, si dissertava tranquillamente sull’argomento del giorno, ma che dico, dei giorni. Erano già trascorsi due giorni dall’invasione delle cavallette e il paesaggio era davvero desolante. Gli abituali passeggiatori e i perditempo di via Athenea, il salotto buono e cuore della città, travestiti da solerti volontari, affiancarono gli spazzini che con le consuete scope comunali ramazzavano tonnellate di cavallette e molte ancora moribonde. Cercavano di raccoglierle a mucchi, ai lati delle strade; donne schifate scopavano cavallette dai balconi e secchiellate di cavallette vennero raccolte anche dentro le case, per via delle finestre aperte.
In quei giorni il paesaggio era diverso in città. Bambini con le palette raccoglievano le carcassine irrigidite degli schifosi insetti, ne facevano mucchietti che versavano diligentemente ai bordi delle case, sui marciapiedi. Il caldo sole dell’estate rendeva l’aria insopportabile per la puzza delle cavallette morte. Nell’ordinanza del Sindaco e della giunta Comunale fu deliberato di non far circolare le macchine per almeno due giorni. In Città, nel silenzio delle strade, gli abitanti salivano e scendevano per le vie e i vicoli su percorsi, in parte già liberati dagli insetti, come se camminassero in piccoli sentieri.
Procedendo velocemente per non calpestarle ed era impossibile, le scarpe producevano crepitii dovuti agli sfrigolamenti di cavallette, di frammenti di cavallette. Per via dell’eccessiva quantità di insetti spiaccicati sull’asfalto non era facile pulire. Il percorso risultava molto scivoloso e ogni tanto si vedeva qualcuno cadere. Gli altri ridevano assieme al malcapitato che, giocoforza, per darsi un contegno, rideva. Che si poteva fare di altro? In città, dopo tre giorni, come è giusto accada, si era dissolta la paura. Qualcuno ostentava una esibita allegria, almeno per la novità che aveva stravolto le abitudini. Se la realtà non fosse stata così orribile, si sarebbe pensato ad una specie di dopo festa. Del resto, ad Agrigento, abitualmente succedeva quasi niente.
Alcuni curiosi, provenienti da altri luoghi, mi hanno riferito che la loro sensazione era che gli agrigentini vivessero quei momenti come un improvviso temporale estivo. Come quando il sole ricompare e spazza la bufera.
I giovani valutavano l’incubo di questi giorni come un gioco. D’altra parte cosa ci si può attendere dalla gioventù se non un sano atteggiamento ottimistico ed allegro rispetto a qualsivoglia novità, agli improvvisi accidenti della vita.
Marco, il professore, dissertava dottamente sul fatto che sono molte le specie di cavallette e che le dimensioni di esse sono molto variabili, ma, ne era sicuro, quelle che erano piombate dal cielo sulla città erano milioni di Calliptamus Italicus. Bisognava inoltre preoccuparsi che le cavallette fossero tutte morte; il pubblico dei camminanti abituali, quello di sempre, imparava, in quel colto estemporaneo discorso, che ‘la proliferazione della cavalletta assume quasi sempre un carattere periodico ed è indubbiamente influenzata dalle condizioni climatiche. La scarsa umidità ed un inverno siccitoso favoriscono la proliferazione delle uova’.
Il discorso diventava sempre più specialistico. Qualcuno pensava incuriosito a quale relazione ci fosse tra la vita delle cavallette e Mario, il professore molto conosciuto in città. Parlava come un libro aperto, qualcuno pensò. E’ un’arca di scienza, si disse con il pensiero un suo caro amico.
‘Le specie, continuò, sono poche e ben conosciute: il grande Dettico dalla fronte gialla, il Grillastro crociato ed il Grillastro italiano’. C’era di che restare alloccuti. Qualcuno sospettò che quell’uomo di cultura avesse studiato l’argomento per stupire gli altri. ‘Che strano’. Infervorato il professore declamava ad alta voce. ‘Ho visto, dal balcone di casa, la nuvola venire dalla direzione di Porto Empedocle e quindi era ragionevole supporre che venissero dall’Africa, dalla Libia o dalla Tunisia’. Teneva un’erudita lezione, come sempre aveva fatto, cambiando soltanto l’argomento. Con lo sguardo corrusco voleva apparire dispiaciuto per tutto quello spreco che vedeva intorno a sé, per tutto quel ben di dio, perché aveva letto da qualche parte che le cavallette costituiscono un piatto prelibato per talune popolazioni africane.
‘C’è a chi il Padreterno regala molto e a chi non dà niente’, commentò tutto compreso un barbiere di via Esseneto, abituato com’era a sproloquiare e a nient’altro, approvando con ampi cenni della testa il discorso che andava svolgendo il professore, suo abituale cliente.
‘Le cavallette vanno combattute nei luoghi dove sono state deposte le uova’. ‘Bisognerebbe controllare le condizioni climatiche’. ‘Del resto, non fu Empedocle che fece tagliare la Rupe Atenea per consentire al vento di tramontana di rinfrescare la città?’
‘Bisogna distruggere le uova’. ‘Con quello che costano!’ ‘Prima che siano in grado di volare, prima che si organizzino’. ‘Bisogna scovare le uova di cavallette’. ‘Andiamo a cercarle prima che diventino adulte’. Parlare e parole. ’Ma con che cosa?’ ’Non sarà pericoloso?’ Parole rimbalzavano sui muri delle case, nelle strade, nelle stradine. Rimbalzavano le parole come cavallette impazzite. ‘Ci vogliono gli anti-acridi, precisò timidamente un altro sopravvenuto alla discussione, per evitare nuove incursioni degli sciami’. ‘Dove si comprano gli anti-acridi?’ ‘In farmacia’. ‘Ma è così difficile capirlo?’ ‘Almeno questo, bisognerebbe saperlo’. ‘Forse è opportuno appuntarlo da qualche parte per la prossima volta’. ‘Me ne posso occupare io’. Cavallette o non cavallette, non è questo il problema, avviene sempre così nelle discussioni, ad Agrigento. Risulta, e a malincuore lo riferisco a quei generosi lettori che avranno avuto la pazienza di arrivare sino a questo punto, che parlare, spesso significa parlar d’inezie, parlare a vanvera, inutilmente. Ed amano, gli agrigentini, dissertare su qualsiasi discorso, su ogni argomento, su ogni avvenimento ed accadimento della vita, tristo o gioioso che sia. Così, tanto per parlare, per sentirsi, forse, meno soli.
Molti secoli fa, Omero cantava per scherzo ‘la guerra dei topi con le rane’; Virgilio parlava de ‘la zanzara e la focaccia’. Erasmo ci ricorda, nella prefazione dedica che precede ‘L’elogio alla pazzia’, altri scherzi.Insomma, per dirla proprio con Erasmo, con mucchi di parole si van formulando questioncelle di lana caprina. Anche ad Agrigento, la città più pirandelliana del mondo, come sappiamo, la più bella città dei mortali, accade.Molti, tra gli appassionati di questa straordinaria città, si preoccuperebbero molto se ciò non avvenisse: conferma della continuità e dell’immutabilità dell’esistenza. (Palermo febbraio 2006)

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