Thursday, May 18, 2006

IL GIOCO DELLE APPARENZE (Laura Arancio)

Qualche tempo fa, invitato da un fotografo bravo, ma molto scortese, a fare una presentazione per il catalogo di una sua mostra, presentazione che, distratto da altre cose mai pubblicò, (a Palermo avviene anche questo), riflettevo sul fatto che viviamo immersi in un grande “blob”, in un continuo “zapping” delle immagini fisse (fotografie, pitture) che per sopravvivere a se stesse e per sostenere il ritmo delle immagini in movimento (televisione, cinema) sono costrette a rimodellarsi e restituire alla nostra percezione, accelerata dagli eventi per naturale adattamento ai fenomeni mediatici, uno stravolgimento di senso che naturalmente allontana una visione meditativa. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: la mancanza di capacità critica diffusa e la superficialità di tipo consumistico che accompagna molte generazioni.
Per scontati processi di associazione di idee e speculazioni riflessive, questi ragionamenti mi sono ritornati in mente guardando le immagini di Laura Arancio che appunto restituisce, alla nostra percezione, un rimodellamento ed uno stravolgimento di senso dell'immagine, catturata con l'obiettivo fotografico. La fotografia, del resto, tende sempre a sottrarre un dato alla realtà, per aggiungersi alla realtà. “La fotografia gioca un gran ruolo nella nostra vita d’ogni giorno”, ha scritto l’amico pittore Ernesto Treccani, “l’occhio dell’uomo d’oggi è assuefatto a trovarsi dinnanzi, in molteplici occasioni e sotto gli aspetti più vari, questo “medium” fra la vita che scorre ed il proprio sforzo d’individuazione. Per me pittore, in particolare, il mondo della fotografia riveste un immenso interesse. Per quella sua facoltà di “fermare” una realtà in perenne mutazione, di sottolineare l’attimo essenziale, l’atteggiamento complesso, in equilibrio estremamente instabile e passeggero”. E l’arte, in generale, è sempre pratica splendente di ambiguità e di instabilità.

Un incontro a Palermo

Devo a Matilde Trapassi il mio incontro con le fotografie di Laura Arancio. Le sono grato poiché in questa città, da decenni annichilita dalla “palermitanitudine” e che, generazione dopo generazione, stancamente ripropone sempre e soltanto se stessa, con un antico disagio esistenziale, con lo scimmiottamento di processi artistici più complessi e strutturati di altre regioni del mondo, è sempre più raro imbattersi in artisti riservati e coerenti che svolgono la loro ricerca, in tempi lunghi, senza stare al gioco “tra locale e globale”, atteggiamento tanto di moda tra gli artisti, i critici e il sistema dell'arte che li genera.
Parto da questa breve considerazione per affrontare la lettura del suo lavoro tenendo conto della sua coerenza nel tempo. Ripercorro l’iter di ricerca iniziato negli anni ottanta, per identificare agevolmente gli aspetti fondanti di essa; l’autoreferenzialità, soprattutto, nonché la dichiarata volontà di superamento del mezzo fotografico per tentare di allargarne i confini e i limiti; per coniugare, infine, la fotografia con la pittura. Tutto ciò avviene com’è ovvio, con il colore. Perché, nei fatti, lei è pittrice prestata alla fotografia e non viceversa. Ma vado per gradi.
Nel 1986, su carta cotone e carta velina emulsionata alla gomma bicromata, l’artista realizza collage di fotogrammi seppiati, grigi e neri con autoritratti e trasparenti ritratti femminili, risolti con il senso della memoria e l’archeologia del reperto e tra questi anche un bel ritratto dell’amica di sempre, Matilde Trapassi. L'anno successivo, nel 1987, con fotografie in cibacrome lavora con frammenti e particolari di scene teatrali, di donne e di occhi, tratti prevalentemente dal video. Viene da pensare alla ricerca di Mario Schifano che, alla fine degli anni sessanta, già estrapola singoli fotogrammi dai programmi televisivi e li proietta, decontestualizzati, sulla tela. Nelle successive esperienze interviene pittoricamente e muta ulteriormente il senso delle immagini riportando su tele emulsionate alcune immagini televisive isolate dal contesto delle sequenze logiche e riproposte con interventi estranianti di colore. E Laura Arancio percorre in qualche modo, tra fotografia, TV e intervento manuale gli stessi territori di ricerca prima accennati.
In tal senso, molti anni dopo, per più di due anni, ritocca a olio, meticolosamente a mano, con piccoli tamponcini e mascherine, le fotografie in bianco e nero. I suoi soggetti preferiti sono sempre i volti e gli autoritratti referenziali. S’interessa prevalentemente al corpo come mito.
Riflessiva e ponderata, prosegue la lentissima ricerca con la fotografia, dal 1996 sino al 2001, con collages d'immagini di garze, rametti, conchiglie, corazze e fratture segniche sapientemente ricostruite suggerendo suggestioni tendenti al sogno e al mito per approdare, ricostruendola, alla “memoria” della Nike di Samotracia.
L’attenzione di Laura Arancio dal 2003, anno della sua personale “Doppio sguardo” a Foiano (Arezzo), è rivolta alle cosiddette “fotografie artistiche” di famiglia, ricercate pazientemente ed acquistate nei mercatini della domenica. Con coerenza, anche spulciando tra le bancarelle dei rigattieri, rimane inalterato l'interesse per il mito e il sogno.

Le fotografie della ricerca attuale, esposte in questa personale, non abbisognano più della manualità pittorica ma si affidano ad un esercizio linguistico più maturo che, con la manipolazione dell'indotta frammentarietà della “fotografia da credenza o da bacheca”, tenta di dare un'idea di totalità. La “totalità” è percepita attraverso il frammento, attraverso l'allusione come avviene nel linguaggio televisivo.
Ed è quel che accade guardando il corpus fotografico che sottolinea anonime comparse di uomini, donne, bambini colti con il vestito buono della festa, testimoni nei gesti e nei vestiti di qualche rituale ricorrenza.
Laura Arancio costringe l'osservatore a guardare immagini che frammentano il corpo e gli oggetti comuni e che tra specchi e vetri deformanti lo restituiscono in porzioni o idee. Protagonisti divengono i volti, gli occhi, soprattutto gli sguardi che appaiono imprigionati nelle fotografie cadute casualmente dentro un acquario. L'occhio meccanico e obiettivo della macchina fotografica non possiede alcun automatismo che oggettivamente registri la realtà ma è aperto alle intenzioni, agli stimoli e alle memorie che gli consentono ormai variazioni e spostamenti. Ed è ciò che avviene in questa interessante ricerca.
La fotografia, come mezzo meccanico di registrazione della realtà visibile, l'assemblaggio visivo che inequivocabilmente ci rappresenta e che non tiene conto di uno specifico ordine progettuale, segue il dettaglio di un accumulo che genera in ogni immagine prodotta un diverso iter iconografico, tra la realtà e l'ambiguità del gioco delle apparenze.
Ci troviamo con queste fotografie di fronte ad una sorta di nomadismo creativo capace di ingenerare la suggestione di una realtà ambigua collocata al di fuori del tempo, sedimentata nella nostra memoria collettiva e nell'immaginario corrente, anche attraverso il filtro delle immagini distorte della televisione e di ogni registrazione meccanica della realtà visibile.
Frutto della deformazione ottenuta fotografando le vecchie immagini attraverso vetri cilindrici pieni d'acqua, il risultato è un racconto suggestivo ed evocativo di una vita immaginata: i bambini diventano goffi e le bambine sono imparentate forzatamente con l’infanta goyesca e i reinventati nanerottoli stanno immobili tra prime comunioni e feste comandate.
Uomini dai colletti inamidati, con i baffi e i sorrisi stereotipati, si accompagnano a rigidissime giovani donne, dagli sguardi verginei, che tengono enormi mazzi di fiori e che diligentemente fissano l'obiettivo fotografico per donarsi alla storia. Il risultato è una memoria che agisce tra la malinconia di un tempo trascorso e il ridicolo di una teatrale messa in scena che accompagna la fotografia in posa, ma anche un'immagine che vuole rinnovarsi, tra la sincerità del ricordo e l'emotività, e che contiene implicitamente gli accadimenti quotidiani di una memoria recente, frammentaria e sintetica, perfettamente inserita nel linguaggio odierno tra “blob e zapping”, pur se rifugge la nostalgia del passato.

Questa mostra si occupa specificatamente di famiglie di un tempo remoto, ectoplasmi di un sistema sociale confuso e contraddittorio, probabilmente destinato a trasformarsi in altro. Si accumulano, in una sequenza intercambiabile, le immagini ormai sbiadite che appartengono al mondo dell'affettività, delle stratificazioni emotive, dell'immutabilità della famiglia.
Gli interventi manipolatori che caratterizzano questa ricerca sottraggono alle fotografie il superfluo, ma aggiungono forse qualcosa in più, la sensazione del già visto che aiuta il lettore ad entrare nell’opera, nella rappresentazione di un mondo che ha denominatori comuni nella memoria e nell’immaginario collettivo. Diventano inquietanti teche, dall’atmosfera surreale e congelata, di una cultura contadina, profondamente cattolica, paragonabile alla cultura italiana che viene quasi spontaneo accostarle, nel dibattito di quest'ultimo periodo, a quella secolarizzazione all'incontrario che sta attentando ai valori fondanti della laicità che esprimono tolleranza e libertà di scelta dell'individuo.
Concludo ricordando la ricerca più recente di Laura Arancio che, considerati i suoi tempi, vedrà risultati concreti chissà quando: le diapositive rifotografate di una Piazza d’Italia di De Chirico sono la scena e le modelle, sempre autoreferenti, sono i burattini, i personaggi che recitano se stessi. Il gioco del travestimento e l’uso ambiguo, nello stesso tempo, dei vestiti utilizzati suggeriscono immediatamente un “poema a fumetti”. Ma ciò diventerà un’altra storia.

(Palermo, autunno 2005)

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