Thursday, May 18, 2006

COMMERCIANTI DI NEVE E DI CARCIOFI (Vincenzo Ognibene)

Ottima occasione questa mostra dell'artista cerdese Vincenzo Ognibene, soprattutto per le nuovissime generazioni educate e condizionate dalla cultura televisiva, per ritrovare un territorio di riflessione sul valore della cultura contadina, sul valore intramontabile della famiglia, delle stagioni e di tutto quello che regola, da millenni, il destino dell'uomo e le sue origini legate alla terra, al senso della religiosità insita nella natura stessa dell'umanità, nella sua precarietà. Ottima opportunità, inoltre, per riflettere e comparare gli argomenti che queste opere indagatrici, autoreferenziali suggeriscono al dissennato delirio d'onnipotenza che l'uomo d'oggi esibisce con disinvolta sicumera.
Un lungo racconto, un sogno smisurato ed improbabile che si dipana nelle opere di questa mostra che cerca le proprie origini, cerca la propria identità. Nato a Termini, sarà "Villaurea", contrada a tre chilometri da Cerda dove vive per otto anni, a dare al pittore la misura di tutte le cose che informeranno la sua vita. L'albero secolare accanto alla casa ritorna spesso nella sua essenziale pittura. "U focu e l'arvulu" rimanda, oltre al valore fortemente simbolico del Fuoco e dell'Albero della Vita anche alle struggenti serate invernali e alle gioiose serate d'estate dell'infanzia vissute in lietezza d'animo e spensieratezza che si fa puntuale testimonianza della tragedia di un popolo nella storia.
Quasi un ritorno a "U pizzu a Guardia" recita il titolo di un olio su tavola. Misura un tempo dell'infanzia in cui tutto era possibile. Presente e passato si fondono, interagiscono. L'opera dal titolo "Circolarità del tempo" vuole esprimere questo rapporto. Tutto il lavoro del pittore trae soprattutto forza dalla memoria e la trasfigura sostenuta da una vibrante poeticità. Sa che nei luoghi cercati del passato c'è la sua storia che coincide con la storia del mondo. Non deve perciò cercare una salvifica terra, non ci sarà mai una terra promessa. Non esiste il luogo, in fondo, ma uno spazio senza luoghi. L'artista l'ha già trovato, radicato nei ricordi più cari. E' la consapevolezza del passato.
Il quadro dedicato "a maistra Mariannina" è un delicato pensiero per l'insegnante della propria infanzia; la riconoscenza per i primi insegnamenti ricevuti che tanta influenza avranno nella formazione soprattutto morale del pittore. Non è un ossequio commemorativo finalizzato a se stesso. Rappresenta più che un ricordo.
E' la misura del ricordare nonchè l'attenzione ad un periodo molto preciso della sua vita.
Ogni cosa, appartenente al presente, si sbriciola dentro l'anima senza la consapevolezza del passato, senza la ricerca del probabile, trova tutto ciò nel luogo e spazio deputato della pittura, magico regno del possibile. Ne ha coscienza in "Casa mia, Madre mia", una citazione riflessiva sui "Malavoglia", che è un accorato, deferente omaggio alla madre, alle proprie origini contadine. Il "Dittico del padre e della madre" seguito da "Carusanza" non fanno che confermare il profondo amore per i genitori, per le radici delle quali andare fiero e orgoglioso. Ed ai contadini, ai lavoratori della terra ed in particolare al padre è dedicata l'intera mostra. Ricorda commosso che nella casa di Cerda, tornando dal lavoro si mettevano dei sacchi per non fare scivolare il mulo. 13 sacchi testimonieranno questa immagine ancora molto viva nell'artista. Altre opere raccontano i ricordi. "Accavaddu", è un quasi monocromo rosso omaggio al padre, mentre il dittico "Palummaru e tierra niura", il palummaru o terreno bianco, gessoso sul quale volteggia un corvo, si contrappone simmetricamente alla terra nera, fertile e carica di umori sulla quale vola una bianca colomba. Il bianco e il nero. Il gioco degli opposti radicalizza la composizione simmetrica che viene spesso adottata dal pittore. Insiste ancora sul dualismo dei contrasti nell'opera "Tra notte e giorno", un autoritratto ieratico, svincolato da qualsivoglia riferimento realistico, dal titolo emblematico e che ben sottolinea il dilemma tra la conoscenza e non, che esprime il dubbio sul significato profondo dell'esistenza.
Tra i ricordi cari dell'infanzia c'è anche quello di Tano Rizzo detto "u zollo", un personaggio di Cerda, lo sciocco del paese, non molto intelligente, ma benvoluto dai compaesani. L'artista, con l'opera "Notturno con tamburo", lo ricorda suonare il tamburino, lui ragazzino. In questa tavola il volto modiglianesco è esemplificato da una pittura essenziale in uno spazio improvvisamente dilatatosi. In basso un indefinito animale, cane e mulo o pecora indifferentemente, traduce lo stupore e la meraviglia di cui l'artista è capace, assecondato dalla presenza securizzate per l'intero territorio cerdese del Monte sacro San Calogero la cui "espressione", con atteggiamento quasi animistico, viene accomunata a quella d'"a zà Mariarita" di Villaurea.
Per associazione di idee penso, guardando le opere di questo pittore colto, a Zoran Music, alla poeticità diffusa, all'esemplificazione e rarefazione del colore che restituisce uno spazio mentale, sottilmente psichico nel quale si articola e si sviluppa l'intera produzione. L'allungamento delle forme umane evocate dal pittore rimanda alle forme scarnificate, quasi idoli primitivi, spesso immobili di Giacometti, ed esprimono la memoria della condizione umana. La figura umana diventa una forma improbabile, quasi abbozzata, cerca di rispecchiare il senso di precarietà del vivere.
"Per essere esatti bisogna dipingere delle cose colorate, - dice M.E.Chevreul - non come sono esse in realtà, ma come non lo sono". Ben lo intuisce Ognibene che usa il colore sia per vibrazioni atmosferiche, sia per risonanze simboliche ed allusive.
Avviene che certi ritmi ed accordi cromatici usati con essenzialità elementare, sono decisamente astrazione, assumono connotazioni misteriche, guardano verso altri aspetti della realtà intuita più che rappresentata. Penso, in tal senso, anche alla ricerca allegorica e di pura astrazione nella quale ricorrono la figuralità lirica ed essenziale della pittura di Osvaldo Licini o di Gastone Novelli.
Il pittore cerdese fa tesoro del rigore compositivo morandiano negli oggetti delle sue nature morte: mele, frutta, numeri e ceci. Esemplari prove sono la "Natura silente dell' 1 e del cecio" oppure la "Piccola erranza" dove un misuratore del grano, costituisce il fulcro centrale della natura morta. La sua pennellata fluente, spesso a tocchi veloci ed aerei, riporta alla levità rappresentativa del veneto Filippo De Pisis.
Le figure senza corporeità rimandano al mondo poetico di Marc Chagall e non è casuale che "l'angelo Pino", l'amico poeta Giuseppe Giovanni Battaglia voli allungato per tutta la lunghezza del quadro come in una assenza inquieta.
Ci troviamo, oltre a ciò, di fronte ad una pittura che insiste sui simboli e di essi si nutre. I numeri con l'1, l'inizio o il principio ed ancora il 2, o il 3, 4 sono i componenti della sua famiglia, sino al 7 (il riposo), ancora l'8, la circoncisione dei bambini ebrei e molte lettere dell'alfabeto rimandano con i simboli numerici alla Cabala, alla interpretazione della Bibbia, alle parole del Verbo.
Le costanti sintattiche della sua opera colta ed ispirata le ritroviamo nel suo mondo astratto e lirico-visionario che dichiaratamente sogna la rinascita, ne ipotizza la gioia. In un mondo senza ombre la luce pervade ed inventa uno spazio mentale di rara qualità interiore. Ogni elemento pittorico vive di luce propria, evoca un altrove, si richiama alla tragedia dell'esistenza, ma con leggerezza. Piuttosto la sospensione ricercata ed allusiva diventa tensione morale.
Ne risulta quasi una mostra autobiografica, ma nello stesso tempo pervasa di religiosità. "Dittico per Abramo", "L'arca di Noé nel diluvio", "Le due tavole", "L'inizio", "E sia", tanto per citare alcuni sono titoli emblematici ispirati allo studio della Bibbia e dell'Antico Testamento. Alla religiosità pervasiva di molta della sua produzione pittorica e disegnativa fanno eco due opere legate a questa problematica molto sentita dall'artista, sono "L'ebreo- marrano", nome ingiurioso rivolto agli ebrei convertiti al cristianesimo e l'elenco delle famiglie scritto sul Menorah, il candelabro a sette braccia, simbolo della luce nel tempo e nello spazio e delle sette feste ebraiche nell'opera "Cognomi", vuole testimoniare la presenza degli ebrei di Cerda e di Villaurea. I commercianti di neve e di carciofi, accanto ad uno scapolare nero, usato nelle lunghe giornate del vecchio pecoraio, amico del padre, simbolicamente raccontano la scomparsa della cultura contadina e degli ebrei marrani.
In proposito, a questo punto, ci pare opportuno annotare, per l'economia del discorso, che il destino del popolo ebreo è segnato da persecuzioni millenarie che da religiose, con il passare dei secoli, hanno preso a pretesto la sfera sociale. Il nazismo, inventando la questione razziale, decreta l'olocausto di sei milioni di ebrei nell'inferno dei campi di sterminio. Schiavizzati, deportati, trucidati, oggi, gli ebrei nel mondo si pensa siano circa 14 milioni, 5 milioni dei quali vivono, dal 1950, nello Stato d'Israèle. E a questi temi Vincenzo Ognibene vuole riferirsi quando affronta con la pittura lo studio del rapporto poco conosciuto tra la Sicilia e l'ebraismo. Vuole approfondire la conoscenza del destino di un popolo. Si chiede se anche lui è un ebreo marrano.
Per oltre quindici secoli gli ebrei abitano in Sicilia, in pace e prosperità e, con l'arrivo degli arabi, la loro presenza cresce notevolmente al punto che l'idioma degli ebrei siciliani (il giudeo-siciliano) sarà una lingua giudaica a base araba. S'insediano ebrei in tutti i principali centri urbani ed in diverse città rurali.
La politica di tolleranza religiosa, d'eccezionale modernità, praticata dagli emiri musulmani permette la convivenza pacifica e prospera delle quattro comunità religiose presenti nell'isola (islamici, cristiani di rito latino e cristiani di rito greco, ebrei). Anche durante il regno di Federico II, la presenza ebraica permane nell'isola. Ma, nella seconda metà del 1400, scoppiano alcuni casi di antisemitismo e la rapacità dei monarchi spagnoli si rivela pari all'aggressività antiebraica della chiesa cattolica.
Nel 1492, i sovrani spagnoli emanano l'editto d'espulsione, preceduto da una breve ma intensa campagna d'odio. Poiché l'editto vale per l'intero regno, anche gli ebrei siciliani ne sono colpiti, nonostante non siano d'accordo il Viceré, il Parlamento siciliano e la stessa popolazione cristiana che ha vissuto finora in amicizia con quella ebraica. Le comunità sono colpite pesantemente. L'alternativa o l'esilio, lasciando beni ed attività o abbracciare la religione cattolica. In decine di migliaia lasciano l'isola che viene duramente colpita nella sua vita economica e culturale. Le attività commerciali ed artigianali praticamente scompaiono, alcune isole minori rimangono pressoché abbandonate, la vivacità culturale del passato cancellata dal tetro clima imposto dall'inquisizione. Gli studiosi calcolano che lasciarono la Sicilia circa 40mila persone. Oggi non esiste una comunità ebraica in Sicilia, ma ritroviamo la memoria della loro presenza nella gastronomia, in talune espressioni dialettali, in alcune tradizioni dell'artigianato. Ognibene cerca altre tracce interiori più profonde, più intense, che conducano alla verità.
Il pittore nelle sue opere che non vivono la certezza, che si nutrono di ansie e di indefinitezza ma che sono dopotutto una confessione a cuore aperto, aggiunge in questa mostra con le tavole dedicate agli amici non più presenti, Francesco Carbone, Marco Incardona, Giuseppe Giovanni Battaglia, Giacomo Baragli, Vittorio Geraci, e Salvatore Carnevale di Sciara, ricordato come l'"Angilu era e 'un avia ali" di Ignazio Buttitta, il senso più nobile dell'amicizia e della memoria del passato che ritorna ed interagisce con il presente.

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