Thursday, May 18, 2006

AFFABULANTI TECHE DEL SILENZIO E DEL DOLORE (Carmela Corsitto)

La pittura con le macerie della sua storia e le sue ansie, come è noto, ha preso atto da tempo della crisi delle avanguardie con un atteggiamento non certo pacificante ma problematico e convulso.
Poiché la pittura ha rinunciato al ruolo storico, al corso regolare degli eventi e si è diretta al superamento delle prospettive utopiche delle avanguardie, negli intricati spazi della contaminazione, delle interferenze, degli sconfinamenti, delle appropriazioni indebite, del visibile e del proponibile, si è ritrovata all’interno di un processo dialettico di ricerca di territori diversi e rischiosi.
La contemporaneità sente, per tali ragioni, molto forte il disagio dei cambiamenti epocali dell’economia, della globalizzazione delle merci e delle idee, del costume, della comunicazione e su tali assunti cerca di stabilire un differente approccio all’arte, alla libera creatività e vive una stagione di ricerca rivolta alla realtà sinestetica, a tutto campo, delle espressioni e dei linguaggi.
Narcotizzati dagli eventi del vivere quotidiano che incessantemente, ossessivamente disperde, cancella, occulta le storie individuali, con quel malcelato atteggiamento comune a queste ultime generazioni di artisti ricercatori che si riconoscono nella schizofrenia del produrre, resta pur sempre l’aurora del sogno poco rassicurante in verità, dell’arte come poetica del vivere.
Francesco Carbone, recentemente scomparso, mostrandomi alcuni cataloghi di Carmela Corsitto, ne approvava entusiasta la ricerca e mi invitava ad approfondirne la conoscenza.
Un assorto distacco dalle precedenti esperienze di ascendenze, prima figurative poi informali, la portano alla consapevolezza di una libera creatività concettuale che istruisce gli itinerari dell’erranza e del nomadismo contemporaneo. E’ su tale coordinate che i suoi recenti lavori eliminano, azzerano le divisioni fra le diverse categorie dell’arte.
Carmela Corsitto, da qualche anno, insiste su un territorio di corruzione alla ricerca di una ideologia della forma e dell’immagine che evoca e suggerisce proprio attraverso raffinati installazioni ed oggetti estetici.
Attingendo agli scarti, all’accumulo dissenato dei rifiuti di una civiltà trash, mi pare che l’artista voglia esprimere non una vocazione al sogno dell’arte, ma il suo aggiramento, che voglia traghettare verso un’altra sponda, cercare (ancora una volta) una porta verso un’utopica felicità, un sentore di eternità.
Cassette-contenitori ora in forma di quadrati, ora in forma di triangoli, ora come rigorose gabbie quadrangolari esibiscono elementi naturali e reperti artificiali che perdendo il significato originale, ripropongono la memoria di altre forme che concettualmente ambiscono, rivendicano il loro destino naturale.
Carmela Corsitto si avvale prevalentemente del legno, di corde, di canapa, di fili di ferro, di vetri, di plexiglass con il quale cerca le possibili variabili delle trasparenze e quant’altro per mettere in scena, con puntuale ordine spaziale, la sbiadita memoria di un trascorso naturale, il suo disfacimento e la finzione di essa.
Tira aria di catastrofi di smemorati ricordi, di tragedie trascorse imprigionate in questi contenitori ibernanti. Scorie, cumuli e detriti di una storia passata, portatori di significati angoscianti, instaurano misteriosi interrelazioni tra la ricercata sintesi costruttiva e la tensione immaginativa. La percorrenza del desiderio di Carmela Corsitto, scarta e supera gli agguati del vuoto e con decisione s’incammina sicura verso l’altrove, verso l’attesa.
Ci invita a riconoscere altre possibilità interpretative di questi moderni sarcofaghi di reperti mummificati azzerando gli approcci percettivi canonici della forma in sé.
Un oggetto è particolarmente insistito: il cucchiaio ha un ruolo da protagonista e opportunamente contorto con del filo di ferro e rivestito da un tessuto tenuto insieme da vinavil mescolata a sabbia colorata racconta storie improbabili e fortemente suggestive di momenti a venire. A volte viene esibito come unità, a volte lo esibisce in coppia, altre volte in gruppo. Sospesa forma, virtualmente congelata, rivendica una propria teatrale visibilità, una dichiarata sospensione che suggerisce quasi una volontà autoreferenziale di non contaminazione. Forma sospesa nel vuoto rinvia, mi pare, a memorie di energie maschili. C’è come un’ansia di racconto in tutto ciò e sicuramente una promessa enigmatica di futuro in questo prender corpo e idea.
Insomma sono tante le associazioni d’idee e gli accostamenti analogici che provocano. Penso, ad esempio, alle teche con gli ex voto e i simulacri di cera in bella vista negli antichi salotti siciliani.
Trovo anche una singolare assonanza in molte installazioni dell’artista realizzate appositamente per essere poste sulle pareti, quasi bidimensionali bacheche schiacciate, con le ultime generazioni di televisori o dei computers che perdono la forma di scatola per appiattirsi sulla parete grazie ai cristalli liquidi, quali schermi di “proiezioni rappresentative” del visibile.
Alcuni reticoli filamentosi aggrovigliati, realizzati con canapa colorata, mi riportano alla mente i campi dannati e maledetti di Auschwitz e Birkenau che ho avuto modi di visitare in occasione di uno dei miei viaggi in Polonia. Queste forme “congelate”, questi grovigli inestricati dentro le teche, queste teche del silenzio e del mistero esprimono sapore di disgregazioni, un atavico malessere legato ai temi universali del dolore e alla teologia della morte, costringono la mia memoria a ricordare quelle montagne di capelli intrecciati che ho visto, o meglio subìto, quella iconologia della morte esposta al museo di Auschwitz lasciato nelle condizioni originali per non dimenticare dopo gli eccidi, le atrocità di un tempo che ognuno spera sia finito per sempre. Ancora di più questi simboli storti rivestiti posti nelle installazioni mi rimandano alle migliaia e migliaia di cucchiai ammonticchiati in quei campi dannati, alla violenza, al dolore.
Un richiamo apparentemente gratuito questo, ma legato a quegli imprevedibili percorsi della mente, a quelle associazioni di idee che portano ad affermare che ogni forma è il prodotto di una realtà universale che ci appartiene, ma che soprattutto ci rappresenta sia come linguaggio sia come memoria ed emotività.
Carmela Corsitto si appropria del gioco della composizione e dell’enigma con attenzione particolare verso gli oscuri percorsi della mente. Un viaggio creativo tra la geometria e la morfologia, alla ricerca di una nascosta visione che ambisce ad una traccia di felicità. E’ come se l’artista volesse raggiungere la sorgente dell’energia, della vitalità, attraverso la materializzazione delle categorie dello spazio e del tempo su una linea di confine tra arte e libera creatività.
Nudità, trasparenza ed essenzialità sono le trappole apparecchiate per sè e per gli altri con questi oggetti estetici come tramite, oggetti che non possiamo certo considerare arredi artistici, anche se proliferano disinvoltamente sulle pareti come quadri o sui pavimenti come sculture, ma che leggiamo, e forse impropriamente, come la proiezione di un disperato femminile candore, come l’imperscrutabile voglia di tenerezza nel miraggio dell’esistere fra un mondo ammalato di malinconia e un mondo da risanare attraverso la rappresentazione di se stessi.

(Palermo, 22 febbraio 2000)

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