LA CIAVOLA AGRIGENTINA
Sembrava avesse sempre vissuto fianco a fianco con gli umani. Ciò appariva ai miei occhi increduli.
Ero, per motivi di lavoro, a quel posto di ristoro della grande valle dei templi che tutti conoscono proprio di fronte il tempio cosiddetto di Giunone. E su frontoni, colonne rastremate, ordine dorico e conci di tufo parlavo con qualcuno quando improvvisa planò, con fischiata allegria, sul tettuccio di una autovettura tra le molte, una ciàvola.
Ora per non correre il rischio di raccontare oscuro o ancor peggio d'essere frainteso, o comunque capito solo da chi conosce il dialetto e non dagli altri, che non lo conoscono, voglio spiegare subito che ciàvola è in siciliano il corrispettivo
di cornacchia. Cornacùla. CornicùIa. Grosso uccello nero simile al corvo, ma con un becco più grosso e incurvato all'estremità.
Cornacchia, che nel linguaggio figurato rappresenta una persona noiosa, ciarliera, importuna e, anche, persona che predice disgrazie a iosa. Insomma, per farla breve, un uccello malaugurioso, la ciàvola.
Cercava, non v'era alcun dubbio, di farsi notare da noi umani e in particolare dal sottoscritto. Aveva deciso di comunicare con linguaggio ciàvolesco con me. Inequivocabilmente. Osservandola agitarsi, con l'amico argomentammo sui segni del destino. Era, sicuro, una ciàvola greca, auspice di cambiamenti oppure un uomo estroso incarnatosi in un uccello con le penne, il nero e tutto.
Ed io, per la verità delle cose, tra il suggestionato e l'insicuro, pensai ai vecchi della famiglia e a quelli degli amici e mentalmente li passai, ma proprio tutti, in rapida rassegna, come in un presagio di morte. Nessun dubbio! Si era materializzata un'armuzza santa. Insieme, dissertando, si rischiò anche il ridicolo pensando al diavolo. Per non parlare poi del maligno. E lei, la ciàvola, saltellava, svolettava, planava.
Attirava la nostra attenzione in tutti i modi. Ebbi per un momento il sospetto, se non addirittura la certezza che fosse ammaestrata. Non poteva essere! Tantomeno mi risultava che qualcuno avesse mai ammaestrato ciàvole. E comunque a mia memoria non lo ricordavo. Ma tant'è! Saltatomi sulla spalla, mi guardava il grosso uccello nero.
Il mio caritatevole interlocutore decise che tutto quell'agitar si fosse solo fame. E ne convenni con la coda dell'occhio verso la ciàvola, sempre sulla mia spalla, che mi osservava temendo io qualche colpo improvviso del becco.
Andò al bar e tornò con una formetta di pane fresco. Generosamente aveva comprato una bianca rosetta, fragrante e profumata, solo per uno sbocconcello da offrire ad un nero uccellaccio.
Davvero poteva incarnare un presagio di morte annunciata una ciàvola nera come il carbone? Ma a chi? Ma perché? Tutte storie, mi consolavo. Scempiaggini, dabbenaggini.
La sera era bellissima e la luna alta e rassicurante nel cielo, quasi africano, limpido pieno di stelle. Ma quale presagio e presagio! Era solo una insignificante comune ciàvola. Dove vamo convincerci, senza scomodare serotini pensieri trascendenti.
E come se avesse capito, la sfrontata, con un disinvolto svolazzo di ali agitate planò per terra.
Incurante dei mortali presagi che aveva ispirato, banchettò allegramente con spontaneità ciàvolesca, a piccoli becchettii con lo sbocconcello offertogli e con la meraviglia di noi osservatori.
Senza alcun pudore o paura spizzicò e ancora spizzicò con grande cura sino a scoppiarne. Poi, così come era comparsa, la presunta 'armuzza santa si allontanò. E si ecclissò nel buio della valle con gli umani, ormai più distesi, bui pensieri. Anche la paura, i segni del destino compresi, e lo sbocconcello scomparvero nel nulla della straordinaria notte agrigentina. Risollevati, andammo, dopo, al bar per bere qualcosa.
Ritornai nello stesso posto, l'indomani, per lavoro. Quale sorpresa! Guarda là! Rividi, proprio così, il pennuto passeggiare indisturbato tra le rovine di un tempio antico.
Mi avvicinai, aprì il becco contro di me, minacciosissima ciàvola, e si allontanò indifferente, ignorandomi, come se la sera precedente non ci fosse stato nulla tra noi. Capite? Nulla di nulla! Chiesi al custode, poco distante, seduto comodamente al posto di guardia, se l'avesse mai vista la nera bestiaccia e quegli mi riferì, come la cosa più naturale del mondo, che la ciàvola apparteneva al figlio di un venditore ambulante, malato di cuore, ad un bambino, un certo Davide (Giglione), che preferiva vivere con gli animali, e che aveva difficoltà a comunicare con gli uomini compresa la sua numerosa famiglia, e che a quanto si diceva in giro, erano senza fissa dimora e che probabilmente vivevano tutti dentro un vecchio furgone, uccello compreso, il quale era legatissimo al bambino che non parlava, ma che s'intendeva benissimo con la ciàvola.
1 Agosto 1994
Ero, per motivi di lavoro, a quel posto di ristoro della grande valle dei templi che tutti conoscono proprio di fronte il tempio cosiddetto di Giunone. E su frontoni, colonne rastremate, ordine dorico e conci di tufo parlavo con qualcuno quando improvvisa planò, con fischiata allegria, sul tettuccio di una autovettura tra le molte, una ciàvola.
Ora per non correre il rischio di raccontare oscuro o ancor peggio d'essere frainteso, o comunque capito solo da chi conosce il dialetto e non dagli altri, che non lo conoscono, voglio spiegare subito che ciàvola è in siciliano il corrispettivo
di cornacchia. Cornacùla. CornicùIa. Grosso uccello nero simile al corvo, ma con un becco più grosso e incurvato all'estremità.
Cornacchia, che nel linguaggio figurato rappresenta una persona noiosa, ciarliera, importuna e, anche, persona che predice disgrazie a iosa. Insomma, per farla breve, un uccello malaugurioso, la ciàvola.
Cercava, non v'era alcun dubbio, di farsi notare da noi umani e in particolare dal sottoscritto. Aveva deciso di comunicare con linguaggio ciàvolesco con me. Inequivocabilmente. Osservandola agitarsi, con l'amico argomentammo sui segni del destino. Era, sicuro, una ciàvola greca, auspice di cambiamenti oppure un uomo estroso incarnatosi in un uccello con le penne, il nero e tutto.
Ed io, per la verità delle cose, tra il suggestionato e l'insicuro, pensai ai vecchi della famiglia e a quelli degli amici e mentalmente li passai, ma proprio tutti, in rapida rassegna, come in un presagio di morte. Nessun dubbio! Si era materializzata un'armuzza santa. Insieme, dissertando, si rischiò anche il ridicolo pensando al diavolo. Per non parlare poi del maligno. E lei, la ciàvola, saltellava, svolettava, planava.
Attirava la nostra attenzione in tutti i modi. Ebbi per un momento il sospetto, se non addirittura la certezza che fosse ammaestrata. Non poteva essere! Tantomeno mi risultava che qualcuno avesse mai ammaestrato ciàvole. E comunque a mia memoria non lo ricordavo. Ma tant'è! Saltatomi sulla spalla, mi guardava il grosso uccello nero.
Il mio caritatevole interlocutore decise che tutto quell'agitar si fosse solo fame. E ne convenni con la coda dell'occhio verso la ciàvola, sempre sulla mia spalla, che mi osservava temendo io qualche colpo improvviso del becco.
Andò al bar e tornò con una formetta di pane fresco. Generosamente aveva comprato una bianca rosetta, fragrante e profumata, solo per uno sbocconcello da offrire ad un nero uccellaccio.
Davvero poteva incarnare un presagio di morte annunciata una ciàvola nera come il carbone? Ma a chi? Ma perché? Tutte storie, mi consolavo. Scempiaggini, dabbenaggini.
La sera era bellissima e la luna alta e rassicurante nel cielo, quasi africano, limpido pieno di stelle. Ma quale presagio e presagio! Era solo una insignificante comune ciàvola. Dove vamo convincerci, senza scomodare serotini pensieri trascendenti.
E come se avesse capito, la sfrontata, con un disinvolto svolazzo di ali agitate planò per terra.
Incurante dei mortali presagi che aveva ispirato, banchettò allegramente con spontaneità ciàvolesca, a piccoli becchettii con lo sbocconcello offertogli e con la meraviglia di noi osservatori.
Senza alcun pudore o paura spizzicò e ancora spizzicò con grande cura sino a scoppiarne. Poi, così come era comparsa, la presunta 'armuzza santa si allontanò. E si ecclissò nel buio della valle con gli umani, ormai più distesi, bui pensieri. Anche la paura, i segni del destino compresi, e lo sbocconcello scomparvero nel nulla della straordinaria notte agrigentina. Risollevati, andammo, dopo, al bar per bere qualcosa.
Ritornai nello stesso posto, l'indomani, per lavoro. Quale sorpresa! Guarda là! Rividi, proprio così, il pennuto passeggiare indisturbato tra le rovine di un tempio antico.
Mi avvicinai, aprì il becco contro di me, minacciosissima ciàvola, e si allontanò indifferente, ignorandomi, come se la sera precedente non ci fosse stato nulla tra noi. Capite? Nulla di nulla! Chiesi al custode, poco distante, seduto comodamente al posto di guardia, se l'avesse mai vista la nera bestiaccia e quegli mi riferì, come la cosa più naturale del mondo, che la ciàvola apparteneva al figlio di un venditore ambulante, malato di cuore, ad un bambino, un certo Davide (Giglione), che preferiva vivere con gli animali, e che aveva difficoltà a comunicare con gli uomini compresa la sua numerosa famiglia, e che a quanto si diceva in giro, erano senza fissa dimora e che probabilmente vivevano tutti dentro un vecchio furgone, uccello compreso, il quale era legatissimo al bambino che non parlava, ma che s'intendeva benissimo con la ciàvola.
1 Agosto 1994
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